Decreto legislativo 196/03: il senso
delle parole
di Andrea Monti* – 30.10.03
La struttura definitoria del DLgv 196/03, chiaramente ispirata a una tecnica
normativa di stampo anglosassone o comunque nordeuropeo, è particolarmente
dettagliata nell’indicare i significati da attribuire, nel particolare
contesto normativo, a termini di estrazione "altra". Scelta e intento
sono, di per sé, certamente condivisibili dato che, così facendo, viene
ridotto al minimo il "rumore interpretativo" che tanto affligge le
nostre leggi; così semplificando la vita allo studioso e al pratico del
diritto. Ma questa condivisibile aspirazione non trova coerente riscontro nell’attualizzazione
pratica del testo normativo.
Già l’articolo Decreto legislativo 196/03: l’internet non è una
rete evidenziava la confusione terminologica del legislatore quando, nel
definire il concetto di "rete di comunicazione elettronica" assimila
oggetti concettuali non comparabili come infrastruttura e protocollo.
E’ ora la volta di evidenziare una discutibile applicazione dei concetti di genere
e specie in rapporto alla definizione di "comunicazione".
In termini sostanzialmente condivisibili, l’art.4 comma 1 lett. l) definisce
"comunicazione" il dare conoscenza dei dati personali a uno o più
soggetti determinati diversi dall'interessato, dal rappresentante del titolare
nel territorio dello Stato, dal responsabile e dagli incaricati, in qualunque
forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione. Con ciò
inducendo nell’interprete la convinzione che questo termine si riferisca alla
(comunic-)azione di un soggetto che "getta un ponte" fra sé e
altro/i, per transitarvi informazioni e, nel caso di specie, dati personali.
Questa definizione di "comunicazione" si integra coerentemente (salve
le riserve di cui sopra) con il concetto di "rete di comunicazione".
Quest’ultima essendo il "vettore" e la prima il
"trasportato".
Turberebbe il delicato equilibrio interpretativo appena ottenuto, però, il
successivo comma 2 lett.a) dello stesso articolo che intende per
"comunicazione elettronica" ogni informazione scambiata o trasmessa
tra un numero finito di soggetti tramite un servizio di comunicazione
elettronica accessibile al pubblico. Sono escluse le informazioni trasmesse al
pubblico tramite una rete di comunicazione elettronica, come parte di un
servizio di radiodiffusione, salvo che le stesse informazioni siano collegate ad
un abbonato o utente ricevente, identificato o identificabile.
Applicando la distinzione appena evidenziata fra "vettore" e
"trasportato" sarebbe stato logico considerare la locuzione
"comunicazione elettronica" una specie del genere
"comunicazione". Così concludendo che la comunicazione elettronica è
quella comunicazione veicolata tramite una rete di comunicazione elettronica.
Ma la lettura della norma evidenzia una scelta diversa del legislatore che –
trasferendo nel testo normativo una comune ambiguità del linguaggio corrente -
"trasforma" il "mezzo" in "messaggio". E così, l’aggiunta
dell’aggettivo "elettronica" al sostantivo "comunicazione"
trasforma il concetto risultante da azione pura e semplice (art.4 comma 1 lett.
l) nell’oggetto della stessa.
Non è, si badi, una semplice questione terminologica. L’esperienza insegna
che una definizione imprecisa o che si presta a una lettura non univoca può
determinare quel "rumore interpretativo" di cui si diceva all’inizio,
soprattutto se altre leggi che interessano il medesimo settore adottano la
stessa terminologia con significati differenti. E dunque possono sorgere
problemi di difficile soluzione quando l’applicazione concreta della norma
venga portata davanti a un giudice o, più semplicemente, quando un soggetto
obbligato ad applicarla si trovi di fronte a scelte che possono avere
implicazioni economiche o organizzative anche pesanti.
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