Proroga 2, la vendetta. Già: dopo ridde di annunci e
smentite, segreti di Pulcinella e solenni anatemi del Garante, ecco infine
surrettiziamente apparso in Gazzetta, col minimo clamore possibile, quasi nella
speranza di farlo passare inosservato, il fatidico articolo di legge che proroga
di altri sei mesi la proroga della scadenza delle misure minime imposte dal
nuovo testo unico sulla privacy.
Sì, avete letto bene: la proroga della proroga (vedi l'articolo di Paolo Ricchiuto). Andateglielo voi a
spiegare ai nostri partner europei, io non saprei da che parte iniziare: una
legge in vigore da meno di un anno, e peraltro pubblicata in Gazzetta con ben
sei mesi di anticipo sui termini, proprio per dare a tutti modo di organizzarsi,
che vede prorogate per ben due volte nell'arco di cinque mesi le sue scadenze
fondamentali. Senza contare il precedente parere del Garante (che ora gli
si ritorce contro come un boomerang.) il quale aveva già prorogato i termini
di scadenza per il solo DPS. Forse c'è qualcosa che non va.
Lo scorso giugno, commentando su queste pagine la precedente
proroga che spostava a dicembre i termini allora in scadenza, così concludevo:
"in fin dei conti siamo pur sempre in Italia, e da qui a dicembre tante cose
possono ancora succedere. Hai visto mai, il Governo potrebbe anche decidere che
il DPS è un adempimento inutile ed abrogarlo per decreto legge."(vedi Rinviato il DPS, ma non è
una cosa seria). Profezia purtroppo facile e, come si vede, quasi
completamente azzeccata. Già, perché prorogare a giugno 2005 l'attuazione
delle misure minime (ivi compreso il DPS, se vale ancora il principio
interpretativo adottato inizialmente dallo stesso Garante), di fatto significa
rinunciare ad ogni pretesa di serietà e dichiarare apertamente che della legge
sulla privacy non gliene frega niente a nessuno, in primis al Governo.
In Italia, lo sappiamo, si proroga tutto: scadenza degli
sfratti, entrata in vigore delle norme del codice della strada, abolizione del
fumo nei locali pubblici, condoni fiscali. Le "scadenze definitive" nel
nostro Paese non esistono. E ci siamo così abituati a questo regime cialtrone
ed approssimativo che troviamo ormai strane ed ingiuste quelle situazioni,
peraltro assai rare, in cui una norma o un provvedimento entrano realmente in
vigore alla data preannunciata. La morale che si trae di tutto ciò è che, in
Italia, chi si adegua prontamente ad una norma di legge è un fesso: conviene
invece aspettare fino alla scadenza ed oltre, perché probabilmente gli ultimi
arrivati, in barba ad ogni saggezza popolare, saranno alloggiati meglio dei
primi ed otterranno condizioni di favore o migliori trattamenti.
Ma fare una legge per poi disattenderla sistematicamente per
decreto non è un po' troppo costoso? Al di là di considerazioni puramente
etiche sul fatto che il potere legislativo dovrebbe essere ispirato da principi
di serietà, vocabolo il cui significato è oggi ignoto ai più, non è
semplicemente troppo oneroso intervenire continuamente sui termini delle leggi
in vigore per estenderli o rimandarli? Tanto vale non fare proprio la legge, se
già si sa in anticipo che non c'è la reale l'intenzione di applicarla sul
serio.
Alla luce di queste considerazioni e dei recenti fatti propongo quindi un
intervento radicale per evitare al Governo, quando saremo a ridosso della
scadenza del giugno 2005, la fatica e l'onere di prorogare ulteriormente i
termini di adozione delle misure minime: abroghiamo direttamente la legge sulla
privacy e non pensiamoci più. Ammettiamo sinceramente di avere scherzato, e
amici come prima.
Tanto cosa cambierebbe? Niente. La pubblica amministrazione,
è fatto noto, non si è ancora adeguata al mandato del nuovo testo unico; le
aziende sanitarie meno che meno, e basta andare in un qualsiasi ospedale per
accorgersene; le aziende private ne hanno sentito parlare vagamente, ma ancora
non hanno capito cosa devono fare; professionisti ed artigiani si ritengono,
chissà perché, esentati. Peraltro a tutt'oggi la stragrande maggioranza dei
moduli di consenso informato che ci vengono quotidianamente fatti firmare, tanto
nel pubblico quanto nel privato, fa ancora riferimento alla vecchia legge 675,
che nessuno sembra essersi accorto non esistere più; eppure è stata abrogata
ben undici mesi fa!
E non parliamo delle richieste di consenso in totale
violazione dell'art. 13 del codice, del tipo "acconsento al trattamento dei
miei dati personali", senza alcun'altra indicazione. O della richiesta di un
unico, obbligatorio consenso che mette insieme i trattamenti necessari all'esecuzione
del contratto con altri non necessari e invasivi della privacy dell'interessato.
Insomma, il testo unico sulla protezione dei dati personali
è stato un fallimento completo: quasi nessuno si è accorto che esiste, e di
quei pochi che ne hanno sentito parlare solo una sparuta minoranza lo ha preso
sul serio. Certamente non lo ha preso sul serio lo Stato, che riconoscendo la
situazione di completa inadempienza alla normativa proprio al suo stesso
interno, pensa di cavarsi d'impiccio spostando di sei mesi in sei mesi le
scadenze operative previste dalla legge. E così una norma tutto sommato ben
fatta, aggiornata ed equilibrata, straordinariamente moderna e rivolta alla
crescita anche culturale della società, è finita per diventare una macchietta.
O un fantasma, morto prima ancora di entrare davvero in vita.
Tanto vale dunque abrogarla, e tornare alla 675. O, meglio
ancora, dichiarare fallimento su tutta la linea e arrendersi, consegnando le
armi al nemico. Riconosciamo dunque una volta per tutte che in Italia le cose
serie non si possono fare, e soprattutto che il nostro Paese non è
culturalmente in grado di affrontare con responsabilità l'introduzione di
norme di rilevanza sociale quali la tutela della privacy, e lasciamo perdere
ogni ulteriore tentativo. Tanto lo sappiamo tutti che l'unico effetto pratico
che la 675 ha sortito nel corso di sette anni di esercizio è stato quello di
fornire nuovi alibi a coloro che per un motivo o per l'altro non volevano fare
il loro dovere. "Non lo posso fare per la legge sulla privacy" è diventata
una scusa talmente diffusa da non sembrare più nemmeno una scusa, tant'è che
la gente ci crede e non protesta neppure quando è chiaro che la legge sulla
privacy non c'entra nulla con il particolare contesto.
Abroghiamo dunque il DLgs 196/03 e chiudiamo l'ufficio del Garante, vox
clamantis in deserto che si sta disperando per richiamare il Governo ad un
minimo di dignità. Faremo una figura migliore anche coi partner europei, che
tanto lo sanno come siamo fatti e ci vogliono bene lo stesso. D'altronde anche
con loro abbiamo per anni giocato a rimpiattino con le date di entrata in vigore
degli accordi di Schengen. Abbiamo scherzato, scusateci. Ci dispiace per il
disturbo. E tante scuse a quelle aziende, per fortuna poche, che hanno fatto il
DPS entro lo scorso giugno o lo stavano ultimando adesso. Ci spiace che abbiano
sprecato tempo e soldi, ma tutto sommato è colpa loro: che fretta avevano?
Siamo in Italia, no? Stiano più attente la prossima volta.
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