Se rinasco voglio fare l’avvocato: così forse, almeno
spero, capirò la legge e il modo in cui la si applica. E magari, chissà,
riuscirò perfino a comprendere le sue sfumature più esoteriche e ad apprezzare
i suoi razionali più elusivi che oggi, come temo succeda alla maggioranza del
popolo italiano, inesorabilmente mi sfuggono.
Certo, dopo tanti anni che frequento le anticamere del
diritto qualcosa ho imparato: ma più vado avanti e più mi accorgo di non
saperne abbastanza, perché rimango sempre più meravigliato di fronte alle cose
che accadono. Naturalmente ho capito ben presto che la legge, così come le
ricette di cucina, non è un algoritmo: ossia una sequenza formale di
istruzioni non ambigue e prive di arbitrio che, applicate a situazioni
identiche, conducono inevitabilmente ai medesimi risultati. La legge invece è
molto più simile alla mayonnaise: richiede estro ed arte nel mescolare e
trattare gli ingredienti, e non è detto che a parità di ingredienti e di
trattamenti il risultato sarà sempre lo stesso. Ed infatti, proprio come la mayonnaise,
la legge a volte impazzisce tra le mani dell’operatore, creando mostruosità
difficili da mandare giù. Un’altra cosa che ho appreso è che non sempre il
diritto va d’accordo col buon senso, o meglio che il buon senso non è
necessariamente il criterio prevalente da utilizzare quando si tratta di
interpretare ed applicare una norma.
Sarà forse che col passar degli anni la mia innata paranoia
va man mano aggravandosi ma ho sempre più il sospetto che, almeno in quelle
altissime sfere del diritto che riguardano i princìpi più assoluti e
fondamentali, la straordinaria generalità delle definizioni e delle
formulazioni della legge non sia, come ci hanno sempre fatto credere, una
rigorosa necessità semantica conseguente all’esigenza concettuale di
comprendere le fattispecie più ampie senza limitarle a casi specifici o
contaminarle con fuorvianti particolari, bensì un astuto espediente per potersi
sempre lasciare spazio di manovra in modo da poter giustificare, a posteriori,
anche le più inverosimili e surreali interpretazioni.
La nostra legge sulla privacy, sin dalla sua prima
incarnazione risalente al lontano 1996, si è sempre prestata a letture
contraddittorie ed a facili strumentalizzazioni: di questa cosa il precedente
Garante era ben conscio, tanto da aver più volte stigmatizzato la dilagante
tendenza a tutti i livelli di giustificare ogni inazione o mancata prestazione
di servizi adducendo improbabili “motivi di privacy”. Il nuovo testo unico,
basato sui sette anni di esperienza del codice precedente e forte di oltre
centottanta articoli, sembrava meno suscettibile del suo predecessore ad
interpretazioni libere: tuttavia ci si è ben presto resi conto che ancora una
volta, nelle more di alcune definizioni di estrema ed assoluta generalità, non
si può che rimanere impigliati in una rete infinita di dubbi esistenziali ai
quali solo il Garante, nella sua onnisciente bontà, può dare risposte.
Si domandano ad esempio gli ingenui: cos’è un dato
personale? La risposta sembra ovvia, ma attenzione a non eccedere nel buon
senso: quello che a prima vista potrebbe apparire un perimetro di competenza
ragionevolmente delimitato, se segnato appunto col gessetto del buon senso,
diventa purtroppo sterminatamente vasto se si applica alla lettera il codice
nella sua universale generalità. Dato personale, nel nostro ordinamento, è
infatti: “qualunque informazione relativa a persona fisica, persona
giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche
indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione.”
Praticamente qualsiasi cosa, nulla esclusa ed eccettuata. Cosa vuol dire infatti
“mediante riferimento a qualsiasi altra informazione”? Il numero di serie
dell’hard disk del mio computer è un dato personale? Sembrerebbe di no: se
però esso compare nella fattura con cui l’ho acquistato, la quale è
riferibile a me, lo diventa. Oppure no? E la targa della mia macchina è un dato
personale? E la taglia dei miei pantaloni? Il colore dei miei calzini?
Potrebbero esserlo, dipende dal contesto…
Si domandano i meno ingenui: cos’è un dato sensibile? I
più scaltri non cascano nella trappola di considerare sensibile l’importo del
proprio conto in banca o del proprio stipendio, che effettivamente per la legge
non lo sono benché il novantotto per cento delle persone li ritenga tali. Il
codice a tal proposito sembra essere rigido e preciso, definendo i dati
sensibili come: “i dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed
etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni
politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a
carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali
idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”. Uhm. Il numero
di targa della mia auto potrebbe essere un dato sensibile? Effettivamente sì:
una targa estera è senza dubbio idonea rivelare un’origine razziale o etnica
del suo proprietario. Un’ordinazione al ristorante? Sì: è idonea a rivelare
convinzioni religiose. Un abbonamento allo stadio? Certamente: la fede
calcistica è senz’altro una convinzione; “di altro genere” rispetto a
quelle politiche o religiose, ma ad essa equiparata dalla legge! Da questo punto
di vista anche il fatto di credere a Babbo Natale o ai vampiri è una “convinzione”
meritevole di tutela a norma del codice. Attenzione dunque se un amico vi dice,
ad esempio, “sono convinto che i Pink Floyd siano stati il miglior complesso
pop”: la sua convinzione è un dato sensibile, e come tale dovete trattarla in
modo lecito e tutelarla con ogni sforzo possibile. Per il suo compleanno non
regalategli dunque un disco del suo gruppo preferito: la vostra azione
rivelerebbe infatti ai presenti le sue convinzioni, con grande dispiacere del
Garante che a queste cose ci tiene molto.
Vogliamo poi parlare in particolare dello stato di salute?
Questa volta ci ha pensato il Garante in persona a confonderci le idee, sancendo
ufficialmente in un suo illuminato parere che l’informazione sul fatto che una
persona è in buona salute non è un dato sensibile sanitario, mentre
quella che una persona non è in buona salute lo è. La mente vacilla. E allora,
quanto non in buona salute bisogna essere affinché il dato sia sensibile? Uno
starnuto basta a rivelare lo stato di salute? Il fiatone? Le occhiaie? Se
incontro per strada una persona che tossisce, sto trattando un suo dato
sensibile sanitario? E prima che pensiate che esagero: ho vissuto personalmente
il caso in cui il responsabile del call center di una grande azienda ha
seriamente ed ufficialmente posto all’ufficio legale interno il quesito se le
registrazioni delle telefonate del pubblico dovessero essere considerate dati
sensibili atti a rivelare lo stato di salute, perché dal timbro di voce dell’interlocutore
gli operatori potevano accorgersi se era raffreddato…
Peraltro non è ben delimitata neppure la nozione di “stato
di salute”. Il consumo di stupefacenti è un “comportamento” o è uno “stato
di salute”? Il drogato, in altre parole, è un malato o no? E il tabagista?
Sapere che una persona fuma è un dato sensibile sanitario o no?…
Non parliamo poi del “trattamento”. La legge lo definisce
come: “qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche
senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la
registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la consultazione,
l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto,
l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la
cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di
dati”. Praticamente qualsiasi cosa, ed è irrilevante se venga effettuata
con strumenti automatici o no, oppure in modo sistematico o no. Vedere in faccia
una persona costituisce sicuramente trattamento dei suoi dati, e per di più
anche di dati sensibili: certamente ad occhio è possibile stimare la sua
origine razziale od etnica ed anche farsi un’idea del suo stato di salute;
potrebbe anche essere possibile capire per che squadra tifa e magari qual è il
suo orientamento politico. Camminando per la strada raccogliamo dunque
innumerevoli dati sensibili solo guardando le persone che incontriamo. Se poi
stringiamo una mano ad una persona, e questa come spesso accade è sudata,
stiamo anche raccogliendo del materiale biologico proveniente dal suo corpo e
contenente il suo DNA! È un trattamento illecito? Dovremmo fargli firmare il
consenso informato prima di salutarlo?
Basta, avete già capito dove stiamo andando a finire.
Volendo salvaguardare tutto e tutti, il codice della privacy ha disposto
definizioni e norme così ampie e generali che non è possibile rispettarle in
pratica. Se si interpretano “col buon senso” si riesce a campare, ma se ci
si mette ad osservarle alla lettera si finisce con lo scoprire che non si può,
e l’unica alternativa è non fare nulla. Questa è l’interpretazione
pessimistica di coloro i quali ritengono che la legge sulla privacy sia inutile
e dannosa perché praticamente proibisce di fare qualsiasi cosa utile:
personalmente non condivido tale visione, ma certamente alcuni pronunciamenti
talebani del Garante incrinano in me questa convinzione, facendomi pensare che
forse è la forma a prevalere sulla sostanza e che l’utilizzo del buon senso
nell’interpretazione della norma è effettivamente errato e da evitare.
Mi spiace solo che il Garante si presti vieppiù ad
alimentare tali considerazioni mostrando nei suoi interventi pubblici un
comportamento particolarmente poco lineare: sembra infatti prontissimo ad
intervenire con giudizi o azioni quando si parla del compenso di Travolta al
festival di Sanremo o del consumo di droga dei parlamentari, un po’ meno
quando c’è di mezzo un’intera industria dell’informazione illecita come
nel caso Telecom. Salvo poi tacere del tutto quando, come commentavamo in
passato su queste colonne in relazione ad impianti abusivi di videosorveglianza
(si veda: Videosorveglianza: due pesi e due misure?), il trattamento palesemente illecito
sortisce tuttavia effetti di utilità sociale. A questo punto l’uomo qualunque
non può non chiedersi se effettivamente la legge sia uguale per tutti, o se
davanti ad essa non ci sia qualcuno “più uguale” rispetto agli altri. E se
la legge sulla privacy tuteli davvero i deboli e gli indifesi, come ci dicono,
oppure non possa servire a tutelare gli interessi dei potenti mettendo a tacere
le scomode voci fuori dal coro. Se questo è il diritto, meglio il rovescio…
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