Ma negli USA fanno orecchie da
mercante
di Claudio Manganelli* - 28.06.01
Trovare un accordo per una definizione univoca del diritto alla riservatezza
non è il solo impegno del legislatore nei quindici paesi dell'Unione: occorre
affrontare e risolvere il problema relativo alla legge applicabile e al foro
competente per attività svolte su reti elettroniche e favorire la cooperazione
tra le authority per l'adozione di un sistema alternativo di risoluzione delle
controversie per le transazioni on line (Alternative dispute Resolution -
ADR). I paesi dell'Unione Europea devono adoperarsi, più in generale, a
ricercare e promuovere sistemi tecnologici e normativi che siano
"amici" della privacy.
Oltre oceano a governare indiscriminata è la legge del libero mercato, ma
accettare passivamente questa ideologia rischia di "contaminare" i
paesi europei e attrarli nella logica di eliminare ogni ostacolo, comprese le
norme sulla privacy, che contrasti con i principi fondamentali dell'economia.
Se dovesse prevalere la linea americana del trattamento dei dati sensibili,
troppo flessibile rispetto ai rigidi principi di riservatezza previsti dagli
ordinamenti europei, quale tutela della privacy sarà assicurata al cittadino
europeo? L'orientamento di alcuni paesi europei a favore della deregulation e
per la circolazione di dati e notizie senza limiti potrebbe vanificare tutti gli
sforzi compiuti in questi anni di dura lotta a sostegno della tutela del diritto
alla riservatezza. Va considerato, d'altro canto, che il prevalere di
posizioni rigide dell'Europa potrebbero però emarginare l'economia dei
quindici paesi rispetto alla filosofia esageratamente liberista degli USA e di
altre realtà asiatiche. Alle imprese europee verrebbero nei fatti precluse vie
di espansione e nuove opportunità offerte dal mercato del villaggio globale.
La normativa europea sulla privacy tiene in debito conto il flusso
trasfrontaliero di dati e occupa un posto di rilievo sia nella Convenzione 108
del 1981sia nella direttiva comunitaria 95/46/CE
e prevede che i dati possono essere esportati al di fuori dell'Unione europea in
Stati che godono di un'adeguata protezione. La disciplina mira così a dotare
i singoli stati membri di norme omogenee riconoscendo il principio del libero
flusso dei dati il quale, però, non deve mortificare oltre misura qualunque
specificità nazionale né tradursi in un ingerenza indebita negli affari
interni di ciascun Paese.
Nel nostro Paese il flusso oltrefrontiera di dati è disciplinato all'art.
28 della legge n. 675/96 che prescinde dalle modalità prescelte per la
trasmissione dei dati. Non è rilevante, ai fini dell'applicazione della
norma, il fatto che il flusso avvenga per via informatica o telematica, nell'ambito
di una INTRANET, tramite telex, telefax, trasmissioni satellitari o via cavo. Il
flusso va valutato invece secondo altri parametri ai fini dell'eventuale
divieto: natura dei dati, misure di sicurezza, finalità e modalità del
trattamento previsti all'estero, esportazione temporanea di dati.
In Italia, così come in tutti i Paesi dell'Unione Europea, la privacy è
considerata un diritto fondamentale dell'individuo, ma tale affermazione non
è condivisa globalmente con conseguenti differenti posizioni su come possa
essere definito il diritto alla privacy. Lo si è constatato nel corso dei
lavori del Gruppo di lavoro art. 29 della direttiva e dalle conclusioni cui è
pervenuto il Comitato politico previsto dall'art. 31 in materia dell'accordo
sul Safe Harbor.
Tale accordo, raggiunto con la decisione del 26 luglio 2000 della
Commissione, pubblicata sulla GU 25 agosto 2000, dopo due anni di negoziato, tra
i 15 Paesi UE con gli Stati Uniti, mira ad assicurare ai cittadini europei, i
cui dati personali, anche di tipo sensibile, siano trasferiti oltreoceano da
aziende pubbliche o private, un livello di tutela adeguato, anche se non
equivalente, a quello attualmente previsto nei Paesi dell'Unione.
In particolare, tale accordo prevede l'adesione volontaria e non obbligatoria
delle imprese americane ad un sistema basato su un primo nucleo di principi
tratti dalla direttiva europea 95/46/CE, quali: informativa agli interessati,
scelta (opt - out) per i dati non sensibili, anche per cessione a
terzi, consenso (opt - in) per i dati sensibili, accesso ai dati,
rettifica e, in casi eccezionali, cancellazione, sicurezza delle informazioni,
nonché la loro pertinenza rispetto agli scopi per i quali sono raccolte.
Ciò evita alle imprese ed alle multinazionali che esportano dati negli USA di
esporsi ad interventi europei che potrebbero bloccare i trasferimenti di dati,
come del resto previsto dalla direttiva europea in caso di protezione non
adeguata.
Tuttavia, tale accordo non si applica ad alcune tipologie di trasferimenti,
soprattutto nel settore delle telecomunicazioni, dei servizi finanziari ed al
comparto non profit, così come è irrisolta la questione aperta delle imprese
che non vorranno aderire all'accordo in esame.
L'accordo, concluso nel luglio del 2000, è il risultato di un lungo confronto
che ha sicuramente prodotto notevoli miglioramenti sul testo originario, grazie
anche al lavoro svolto dal Gruppo dei Garanti europei per la privacy (all'epoca
presieduto dall'Italia), ma non pienamente soddisfacenti tanto che il
Parlamento europeo e le Autorità garanti dei 15 Paesi avevano auspicato, senza
successo, ulteriori modifiche allo schema, ritenendo ancora insufficienti le
garanzie previste; in particolare era stata sollecitata la ricerca di idonea
tutela e rispetto dei diritti dei cittadini in caso di trattamento illecito dei
dati personali che li riguardino e dei danni conseguenti.
Sono comunque da registrare aspetti sicuramente positivi quali ad esempio la
previsione di un organismo, la Federal Trade Commission, cui sono affidati negli
Stati Uniti compiti di vigilanza e controllo sulle imprese americane che
volontariamente sottoscrivono il Safe Harbour. Queste, infatti, sono tenute a
rispettare le previsioni del Safe Harbor notificando la adesione all'accordo
alla Commissione Federale la quale può anche infliggere sanzioni in caso di
inadempimento. È prevista, infatti, in tal caso una iniziale inibitoria a
conformarsi al contenuto dell'accordo, e in caso di flagrante e persistente
comportamento non conforme all'espulsione dal sistema del Safe Harbor nonché
alla condanna a risarcimento dei danni.
La Commissione, nei confronti della Svizzera e della Ungheria ha invece
constatato che in questi Paesi vi sia un'adeguata protezione dei dati
personali e pertanto non emergono problemi nel trasferimento dei dati personali.
Nonostante quanto sopra illustrato assistiamo, di fatto, ad un'inadeguatezza
complessiva a livello mondiale delle regole sulla privacy.
Per armonizzare le differenti posizioni che possono apparire anche molto
distanti, si è avvertita l'esigenza di individuare sedi adatte a definire una
giusta soluzione che dia regole finalmente uniformi per un problema planetario.
L'idea di una convenzione mondiale è stata subito abbandonata ma la
Commissione europea ha previsto l'elaborazione di una Carta internazionale,
con la partecipazione di privati e di gruppi sociali, che dovrebbe contenere una
serie di principi volti a coordinare l'approccio dei singoli Paesi. Non è da
sottovalutare poi l'importante ruolo che potrebbe svolgere l'Organizzazione
mondiale del commercio (WTO) e l'OCSE; quest'ultima, in particolare, ha
elaborato linee guida sulla privacy oggetto di numerose riflessioni anche in
ambito comunitario.
Di questo ci si era resi ben conto nel corso della conferenza dei Garanti della
privacy, tenutasi nel 1999 in Spagna a Santiago de Compostela, che concluse i
lavori proprio con un documento che rilevava la necessità di fornire regole
comuni di tutela su scala mondiale, capaci di conciliare le opportunità fornite
dalla rete con la costruzione di un quadro di robuste garanzie per la vita
privata.
La questione privacy assume quindi sempre maggior importanza sia in ambito
politico sia con riguardo ai consumatori. Ciò è connesso alle accresciute
attese nei confronti della information technology, nonché alla
nuova consapevolezza acquisita dai consumatori e dai cittadini in generale che
chiedono di essere meglio informati in merito ai loro dritti sulla privacy. Sull'altro
piatto della bilancia è evidente che sui dati personali vivono molti interessi
il cui valore non è mai stato quantificato ma risulta elevatissimo visto il
fiorire di Datawarehouse, di applicazioni di Datamining e di
filiere anche internazionali relative ad attività di compravendita di dati
personali.
Nonostante ciò nelle applicazioni in rete si registra una generale
sottovalutazione della questione privacy sia nel campo dell'impresa sia da
parte degli stessi consumatori. Inoltre si manifesta una certa confusione su
come la tecnologia può essere usata per utilizzare i dati personali.
La legislazione da sola non è sufficiente a risolvere i problemi connessi alla
privacy; la legge infatti ha bisogno di soggetti che la applichino, che la
osservino e le tecnologie possono sicuramente facilitare l'adempimento alle
prescrizioni. Si rende così necessario promuovere e sviluppare la Privacy
Enhancing Technology (PET), che è ancora agli stadi iniziali.
Il mondo delle imprese, di là dalle prescrizioni della legge, deve essere
ancora convinto del vantaggio che può apportare una corretta gestione della
privacy e sembra riluttante ad investire sulla tecnologia e sulla gestione della
privacy. Sono pertanto necessari sforzi a livello politico per stimolare l'interesse
del mondo imprenditoriale alla privacy e per incoraggiare modelli e
ristrutturazioni sulla base dei PET. Basti pensare che i browser di
internet, i quali costituiscono la prima interfaccia della rete, non possiedono
adeguati sistemi integrati per la gestione della privacy proprio in
considerazione che ciò non è ritenuto vantaggioso in termini prettamente
commerciali. Ne consegue la sostanziale necessità di favorire la cultura della
privacy e la consapevolezza della rilevanza di tale tema, senza sottovalutare l'attenzione
da rivolgere alle tecnologie disponibili per la gestione della privacy. I vari
Garanti nazionali devono avere un ruolo importante da svolgere per promuovere
queste attività.
Un'ampia gamma di tecnologie, metodi e strumenti sta cominciando ad essere
disponibile per la gestione della privacy. Questi sistemi rappresentano pertanto
un utile approccio al problema della privacy, ma vanno gestiti in modo corretto
e professionale giacché richiedono appropriate conoscenze sia per la fase dell'installazione
che per l'utilizzo degli stessi. Se gli strumenti non sono ben ideati o
adeguatamente integrati con le modalità di utilizzo della rete si assisterà ad
una forte riluttanza ad utilizzarli proprio perché la capacità di utilizzo e l'uso
delle interfacce divengono questioni prioritarie rispetto all'accettazione
delle PET. Si potrebbe ad esempio mettere a punto un browser europeo che
comprenda strumenti e tecnologie aderenti alla normativa a protezione dei dati
personali, progettato cioè in modo da prevenire l'uso illecito o la raccolta
non autorizzata.
Anche le nuove tecnologie, introdotte per aumentare la funzionalità delle reti,
come Active X o Java pongono nuove minacce alla privacy; così lo sviluppo della
tecnologia "mobile" (per esempio l'applicazione Wap) crea nuove
opportunità di servizi a valore aggiunto ma produce inevitabilmente nuovi
rischi alla privacy.
E' quindi ormai necessario e non più procrastinabile la promozione di
ricerche nell'area dell'information and communication technologis (ICT) volte
al rafforzamento della privacy tramite dispositivi ed applicazioni informatiche.
Lo stesso problema del crimine informatico non può essere separato dallo
sviluppo delle Privacy Enhancing Technologies, e si avverte la necessità
di alimentare il dibattito in quest'ambito, con la partecipazione ed il
contributo di tutte le parti in causa.
Altro impegno importante potrebbe essere quello di codificare la migliore
prassi nell'area della gestione della privacy. Iniziative in questo senso sono
state portate avanti: basti pensare ai codici di condotta sul trattamento dei
dati personali creati in ambito interno alle aziende o per interi settori. Si
pensi, al riguardo, che negli USA, ben quindici associazioni commerciali nel
settore dell'alta tecnologia (che rappresentano oltre 20.000 imprese) si sono
coalizzate per elaborare codici basati sui fondamentali elementi a tutela della
privacy (che sono poi gli elementi suggeriti dalle Linee Guida OCSE in materia
di privacy) e che contemplano l'informativa, la possibilità di scelta, la
sicurezza, l'accesso dei consumatori e l'accuratezza dei dati, così come in
Europa sono in corso di definizione altri progetti analoghi basti pensare al
Codice di condotta sul trattamento dei dati personali portato avanti dall'International
Commerce Exchange (I.C.X.).
Tra gli strumenti utili a potenziare il rispetto della privacy potrebbero
essere di ausilio i certificati di qualità o i meccanismi di auditing i quali
offrono interessanti, anche se parziali, soluzioni.
Altro argomento che ritengo utile affrontare in questa sede è quello relativo
alla legge applicabile e al foro competente per le attività svolte su reti
elettroniche.
Le caratteristiche proprie del flusso di dati sono date in primo luogo dalla
struttura stessa della rete che può riguardare comunità globali limitando
quindi le capacità regolatorie d'interventi normativi di tipo
"municipale"; la stessa velocità dello scambio, se da un lato
facilita il flusso d'informazioni on line, dall'altro rende obsoleto e
tardivo ogni intervento "locale" necessario a controllare gli aspetti
del fenomeno; infine la non fisicità esclude ogni forma di contatto diretto tra
i numerosi e diversi operatori coinvolti dal flusso d'informazioni.
I suddetti caratteri sollevano una serie di questioni giuridiche sulle quali è
necessario soffermarsi.
Il tema di maggior rilevanza nell'ambito delle complesse problematiche
legali di una rete che si sviluppa su più Paesi, e che tra l'altro è
pregiudiziale alla soluzione di tutti gli altri, è quello dell'individuazione
della legge applicabile e del foro competente per le attività ivi condotte, non
potendo trovare applicazione i criteri normalmente utilizzati dalle varie leggi
e dai giudici per determinare le normative applicabili a specifiche fattispecie
caratterizzate da internazionalità, in quanto criteri pensati per un mondo
tangibile.
Basti pensare alle regole esistenti per stabilire quale sia il giudice
competente a conoscere le eventuali controversie che si basano su contatti di
tipo fisico, quali ad esempio: il luogo di conclusione del contratto, quello di
esecuzione dell'obbligazione, il luogo in cui si verifica l'evento dannoso,
la residenza del soggetto che fornisce la prestazione, il luogo in cui si
manifesta la promessa unilaterale, etc.
Una adeguata regolamentazione si rende ora necessaria per garantire gli
operatori economici, ma al contempo è necessario non determinare un freno
legislativo al progresso della tecnologia applicata al commercio.
Ciò che è importante evidenziare subito è che il problema della legge
applicabile per i flussi di dati oltrefrontiera, si pensi ad esempio al
commercio elettronico, non è solo un problema di diritto internazionale
privato.
In realtà le attività svolte in rete, come fenomeno complessivamente
considerato, non hanno ancora una disciplina propria, con la conseguenza che
oggi le aziende si chiedono come debbano comportarsi per evitare il rischio di
essere convenute in stati dall'altra parte del globo ed eventualmente
condannate sulla base delle leggi ivi in vigore, molto spesso sconosciute alle
stesse aziende che ne sono assoggettate.
Lo stesso Safe Harbor non ha dimostrato una adesione convinta ai principi in
esso contenuti e, a parte i grandi produttori di software quali IBM e Microsoft,
che ovviamente vi hanno aderito, non può ritenersi significativo di un
mutamento di indirizzi da parte dell'offerta statunitense lo sparuto elenco
degli aderenti; il che può solo voler significare due cose: o le stesse aziende
americane non credono al potere normativo del Safe Harbor, o la costumanza dei
poteri economici USA al libero mercato non gradisce limiti al potenziale
contenuto nei dati personali. Quindi le politiche di privacy, molto spesso ben
evidenziate nelle Home Page dei siti USA si rivelano ben poca cosa agli
occhi di un cittadino europeo che abbia compreso l'importanza della protezione
dei suoi dati offerta dalla direttiva europea e dalle corrispondenti leggi
nazionali. Così, ogni collegamento effettuato per scaricare una correzione
software dal sito Microsoft o un file Mpeg da siti di entertainement è
condizionato dalla disponibilità dell'internauta a rilasciare informazioni
dettagliate sulla sua persona; inoltre, quando si naviga esplorando pagine WEB
sulla rete, flussi di spyware inviati dal sito estraggono dall' hard
disk dell'utente informazioni utili a catalogarlo e profilarlo secondo modelli
mercantili. Guai poi se, più o meno consapevolmente, si rilascia il proprio
indirizzo di posta elettronica. Si sarà rapidamente bombardati da messaggi
promozionali ed iscritti in archivi marketing divenendo così oggetto di
interesse da parte delle più svariate proposte commerciali.
E' quindi urgente che i Garanti europei si attrezzino per fornire forme di
difesa giuridiche e tecniche al popolo del ciberspazio: una semplice idea
potrebbe essere proprio quella, troppo spesso annunciata ma non ancora avviata
in Italia, per classificare con un sigillo di qualità quei siti che promettono
una seria policy di privacy e ad essa associano metodologie organizzative
che dimostrano una serietà verso il rispetto dei diritti dei consumatori,
riservatezza compresa. |