Ancora una volta ha ragione Cammarata. In una recensione
di una raccolta di saggi giuridici che mi vede tra gli autori, afferma che per
trattare il diritto delle tecnologie occorre, tra l'altro, "conoscere le
tecnologie stesse, almeno nei loro aspetti più elementari" (e sia ben
chiaro che preferisco non sapere mai se sono tra gli autori "buoni" o
quelli "cattivi").
Però non è il solo, perché su questo problema, avevo relazionato anch'io
nel novembre 2000, nel corso di un interessantissimo e piacevolissimo convegno
tenutosi presso l'Ateneo pisano (gli atti sono pubblicati in AA.VV.,
Informatica giuridica, a cura di G. Rognetta, Napoli, Simone, 2001).
Anche prima di quell'occasione ripetevo, in modo provocatorio, che, secondo
me, un buon giurista informatico dovrebbe sapere smontare e rimontare il proprio
computer. In diverse occasioni mi è stato simpaticamente risposto che si può
sempre chiamare un tecnico. Risposta simpatica, data da una persona che ha un
sufficiente livello di conoscenze tecniche, ma che sicuramente mi aspetterei da
altri meno preparati in materia.
E' chiaro che non mi voglio mettere in competizione con Cammarata. Voglio
soltanto dire che se siamo almeno in due a sostenere certe cose, potrebbe essere
ciò che emerge di una corrente di pensiero.
Anche con questo mio scritto ho voluto fare una provocazione, ma non soltanto
formalmente, perché il problema, oltre ad essere assai concreto, è certamente
grave.
L'omessa adozione delle misure di sicurezza minime è reato ai sensi dell'art.
36 della legge 675/96, disposizione che prevede anche una fattispecie
colposa. Vediamo più da vicino la relativa disciplina con particolare
riferimento ai programmi antivirus e simili.
Come accennato, l'art. 15 impone l'adozione
delle misure specificate nel Regolamento. Due sono gli interrogativi
fondamentali: a) quali sono le misure da adottare e con quali modalità? b) Chi
sono i soggetti tenuti ad adottarle?
Per rispondere al primo quesito è necessario guardare alla lettera c) dell'art.
4 DPR 318/99 chiarendo, però, che il legislatore, malgrado il richiamo all'art.
615-quinquies c.p., non ha utilizzato il termine antivirus o altro dal medesimo
significato.
Più semplicemente, si fa menzione di una generica protezione "contro il
rischio di intrusione ad opera di programmi di cui all'articolo 615-quinquies
del codice penale, mediante idonei programmi, la cui efficacia ed aggiornamento
sono verificati con cadenza almeno semestrale"; e se l'art. 615-quinquies
c.p. non si riferisce ai soli virus intesi in senso stretto, è evidente che, al
di là della terminologia tecnica e/o di mercato potrebbero necessitare anche
dispositivi come i firewall, software o hardware, dal momento che il
legislatore non distingue (chiarendo che il firewall non è necessario
per evitare un accesso abusivo da parte di un operatore remoto, ma per impedire
l'"entrata" di programmi).
In più è dovuta la verifica, con cadenza almeno semestrale (termine assai
criticabile, vista la proliferazione di virus e programmi analoghi), dell'efficacia
e dell'aggiornamento.
Il riferimento all'efficacia è, per la verità, di non agevole
interpretazione. Al più, in una tesi ragionevole, viene da pensare al corretto
funzionamento informatico (installazione, attivazione, ecc.).
Il riferimento all'aggiornamento è, invece, sicuramente più chiaro. E,
infatti, non ha alcun senso utilizzare un antivirus senza tenerlo aggiornato
magari - per scrupolo - anche in termini più contratti rispetto a quelli
indicati dal legislatore (d'altro canto, non pochi antivirus consentono
aggiornamenti, spesso a fronte di un abbonamento, assolutamente agevoli come
quelli, cosiddetti live, attivabili mediante connessione Internet).
Conseguenza di ciò è che se, ad esempio, un certo virus viene ufficialmente
scoperto ad una certa data (dal produttore del proprio antivirus?) e non si è
installato il relativo aggiornamento entro sei mesi da quella stessa data, la
sanzione penale risulterebbe inevitabile.
Quanto ai soggetti, l'art. 36 parla soltanto di coloro che sono
"tenuti". Malgrado la vaghezza del dato letterale (in particolare, l'uso
del termine "chiunque"), l'art. 36 prevede un reato proprio che,
guardando alla disciplina generale dei dati personali, può, in sostanza, essere
commesso soltanto da tre soggetti: il titolare, il responsabile e l'amministratore
di sistema (C. Parodi, A. Calice, Responsabilità penali e Internet, Milano,
2001, pag. 305).
Altre persone, al limite, risponderanno, eventualmente, a titolo di concorso
con l'intraneus.
Da una differente prospettiva, l'art. 3
della legge stabilisce che "Il trattamento di dati personali effettuato da
persone fisiche per fini esclusivamente personali non è soggetto
all'applicazione della presente legge, sempreché i dati non siano destinati ad
una comunicazione sistematica o alla diffusione", ma anche in tali ipotesi
"si applicano in ogni caso le disposizioni in tema di sicurezza dei dati di
cui all'articolo 15, nonché le disposizioni di cui agli articoli 18
e 36".
A parte quanto statuito dall'art. 18 in tema di responsabilità civile (con
espresso richiamo al severo regime delle attività pericolose ex art.
2050 c.c.), quanto al penale si ritorna sempre all'art. 36. Il richiamo
merita, però una precisazione di valenza non certo trascurabile. E infatti,
secondo l'art. 9 del Regolamento, in
caso di trattamento a fini esclusivamente personali è necessaria soltanto la
predisposizione di una parola chiave (e non di altre misure di sicurezza) e
sempre che ci si trovi in presenza di dati sensibili o di rilevanza penale
iscritti nel casellario giudiziale. Stranamente, la misura di sicurezza è
richiesta soltanto qualora l'elaboratore sia "stabilmente"
accessibile da altri elaboratori.
Sta di fatto che, il più delle volte, l'attività di un operatore del
diritto non è a fini "personali", tanto meno quella di un avvocato.
Chi mi conosce sa che non amo parlare di questioni deontologiche semplicemente
perché non ne ho l'autorità. In questa sede, quanto alla professione
forense, osservo soltanto che l'omessa adozione di misure di sicurezza può
cozzare contro alcuni principi del codice
deontologico:art. 7 - Dovere di fedeltà; art. 8 -Dovere di diligenza; art.
9 - Dovere di segretezza e riservatezza; art. 13 - Dovere di aggiornamento
professionale. E si ricordi, infine, l'art. 5 che prevede il procedimento
disciplinare a fronte di violazione, non colposa, di una norma penale (per l'appunto,
l'art. 36 della legge 657/96).
Ma c'è una seconda morale. Sappiamo tutti che l'ignoranza delle legge,
in particolare di quella penale, non scusa. E scusa sicuramente meno - se
così si può dire - se il "colpevole" è un operatore del diritto.
Altrimenti detto, pur essendo consapevole del mio atteggiamento intransigente,
non ritengo concepibile che una persona che, per professione, si occupa di leggi,
non le conosca, a maggior ragione se se ne parla anche dal barbiere. Così,
però, è accaduto nei tre pezzi facili.
La "privacy" (uso questo termine... per farmi capire...) è una cosa
seria. Non soltanto perché vi sono disposizioni penali che non possono certo
dirsi morbide (e considerato anche che, come già ricordato, l'art. 36 della
657/96 prevede addirittura un'ipotesi meramente colposa), ma perché, dopo
anni di discussioni, giustamente il legislatore (sebbene, a tratti, con scelte
discutibili) si è deciso a dettare regole a tutela di un bene calpestato da
troppi.
E' ben difficile che si possa giustificare, in qualche modo, la
comunicazione di dati delicati come quelli di cui ho parlato. Per cosa, poi? Per
l'ignoranza di legge di un operatore del diritto. Mi risulta che l'art. 36
sia in vigore, completato dal regolamento, ma molti non sembrano saperlo.
La tutela dei dati personali non si dispiega soltanto attraverso informative e
consensi, termini di cui ci riempie la bocca, spesso senza sapere cosa
significhino. Che, poi, i computer e Internet stiano antipatici ad alcuni, ciò
non autorizza gli stessi a servirsene per "comodità", allontanando
gli oneri che ne conseguono. Dopo tutto, esistono ancora carta e macchine da
scrivere (meccaniche, giusto per non rischiare...) non collegate a Internet,
strumenti che nessun programma informatico potrebbe intaccare.