di Alessandra Paravani - 08.06.2000
I recenti casi di intrusione in alcuni siti della pubblica
amministrazione richiamano l'attenzione sui rischi che possono
derivare dalla mancata adozione di efficaci misure di sicurezza.
Il rischio non è solo quello generico dell'attacco
"frontale" al sistema di protezione dei dati, che dovrebbe
essere al primo posto nelle preoccupazioni di ogni titolare del
trattamento e amministratore di sistema, anche quello indiretto e
casuale non è meno insidioso. Si pensi in particolare
all'eventualità che estranei accedano alle informazioni in situazioni
apparentemente non critiche.
E' un dato dell'esperienza quotidiana di ciascuno di noi che nella
maggior parte degli uffici pubblici vi sia una assoluta mancanza di
sicurezza, di quella veramente minima come la distanza di cortesia. Il
cittadino che voglia accedere ai propri dati può farlo, ma solo a
condizione di esibire un documento di identità, naturalmente in nome
della privacy. Curioso che nessuno si accorga che di fatto quella
stessa privacy non venga garantita, o meglio che a nulla valga
investire nell'impiego di tecnologie altamente sofisticate se di fatto
chiunque, avvicinandosi ad una postazione di servizio, venga messo
nelle condizioni di accedere a dati riservati.
Basterebbe rivolgere i monitor verso il muro, o mettere dietro la
postazione di accesso ai dati un pannello, pure con un messaggio
pubblicitario, o segnalare con un cordolo o con una banale striscia
gialla la distanza di cortesia. Basterebbe forse solo un po' di buon
senso.
Accade così che a distanza di tre anni dalla sua entrata in
vigore, la legge n. 675/96, almeno per la parte relativa alle misure
di sicurezza, non venga pienamente rispettata. E non si tratta certo
di una violazione di poco conto. La mancata adozione delle misure di
sicurezza, anche di quelle minime, non configura soltanto una
responsabilità penale in capo al titolare che ancora non vi abbia
provveduto ma, ciò che è più grave, svuota di significato
l'impianto stesso della legge. Come considerare altrimenti una legge
che mira a garantire la riservatezza, l'identità personale, e la
dignità della persona rispetto al trattamento di dati ma non offre
anche adeguate garanzie sui soggetti che vi accedono e sulle finalità
per le quali essi vengono utilizzati?
C'è da chiedersi innanzitutto se quelle misure siano davvero così
minime anche considerando che allo stato attuale non vengono garantite
nemmeno quelle più banali.
La distanza di cortesia, per tornare all'esempio, non è ancora prassi
consolidata. Né può negarsi che delimitare con una striscia gialla o
con un cordolo uno spazio vuoto sia tanto di più del minimo
richiesto. Eppure la distanza di cortesia è da ritenersi misura di
sicurezza idonea ai sensi dell'articolo
15, comma 1: delimitando lo
spazio fisico necessario per svolgere un'operazione di sportello in
modo riservato, la distanza di cortesia impedisce infatti che terzi si
avvicinino a quella postazione di servizio e da quella accedano ai
dati. Il che, come si è detto, potrebbe accadere in barba alle più
sofisticate misure tecniche che fossero state per ipotesi predisposte.
La tutela della riservatezza può essere, paradossalmente, qualcosa di
meno che sensibilizzare il proprio dipendente a non lasciare la
password bene in vista. Certo, una misura non esclude l'altra, anzi il
contrario: la "sicurezza" del sistema è l'insieme delle
misure adottate. Verrebbe da dire con una saggezza tutta orientale che
"un lungo viaggio comincia da sotto i piedi" (Lao Tze), e
dare allora a questa legge sì tanto spirituale un po' di fisicità...
La mancata adozione delle misure di sicurezza, intesa questa come
sicurezza dei dati e non solo dei sistemi, implica una serie di
ricadute che esulano dall'ambito di applicazione della legge e ciò
anche quando l'accesso ai dati da parte di soggetti non autorizzati
avvenga al di fuori di ipotesi fraudolente.
Ben s'intende il caso in cui i dati vengano utilizzati per finalità
non consentite o non conformi alle finalità del trattamento da parte
di soggetti che abusivamente abbiano avuto accesso ai dati. Nel caso
di dati che rivelano le convinzioni religiose, l'orientamento politico
o lo stato di salute, l'accesso e l'utilizzo di questi dati può
essere veicolo di abuso al momento della stipula di un contratto di
lavoro, di assicurazione, di assistenza sanitaria, e tale da attivare
un meccanismo di esclusione sociale nei confronti dei soggetti più
deboli, non solo contrattualmente.
Inoltre anche la perdita accidentale di dati può comportare una
lesione dei diritti della persona. Quid iuris nel caso in cui
si verifichi una perdita di dati relativi alla posizione previdenziale
di un determinato soggetto? E nel caso di un trasferimento di fondi?
Sono ben note, per esempio, le conseguenze che derivano dall'accesso
alle informazioni relative alla propria posizione bancaria.
Si è ripetuto che la perdita di dati può essere accidentale (ma
esiste una perdita "non accidentale")? Sul punto le misure
imposte dal DPR 318/99 sono, queste sì, veramente minime.
L'aggiornamento semestrale degli antivirus è del tutto inefficace
rispetto al tasso di diffusione dei virus. Lo stesso decreto non dice
nulla su un altro obbligo fondamentale, quello di aggiornare il
software con le patch (letteralmente "pezze")
rilasciate dai produttori per coprire i buchi di sicurezza a mano a mano
che vengono scoperti e segnalati. Esistono patch che devono
essere assolutamente installate per garantire la sicurezza del sistema
e rispetto alle quali il produttore che le abbia rilasciate si libera
di ogni responsabilità per i danni che dovessero verificarsi a causa
della loro mancata installazione
La legge n. 675/96 sanziona il comportamento di chi, pur essendovi
tenuto, non provvede ad adottare le misure di sicurezza necessarie a
garantire la sicurezza dei dati (art.
36). La norma comporta una
responsabilità penale anche per colpa, ma questa è, malgrado tutto,
ancora troppo lontana...