L'abolizione del bollo non è un
buon affare
di Daniele Coliva - 02.12.99
Riferimenti:
Il testo integrale della legge
finanziaria
Gli
emendamenti
InterLex lo ha già annunciato (vedi Le
tecnologie rinnoveranno il diritto?), il
Ministero delle finanze ha posto l'accento sul momento di abrogazione, però a
ben vedere l'esenzione dall'imposta di bollo (e i provvedimenti connessi)
non sembra proprio così vantaggiosa, quanto meno in termini finanziari.
Ad oggi, com'è noto, sugli atti giudiziari grava un'imposta di bollo di
20.000 lire ogni quattro facciate (o cento righe); a questa si aggiungono i
cosiddetti diritti di cancelleria, che vengono corrisposti mediante apposite
marche al momento del rilascio di copie di atti, di deposito degli atti iniziali
di un procedimento, ed infine la tassa di iscrizione a ruolo, che viene pagata
da chi instaura il procedimento civile, sempre mediante marche1
.
L'art. 9 del disegno di legge della legge
finanziaria per l'anno 2000 prevede l'esenzione dall'imposta di bollo (che
rimane per altri atti, es. i contratti) per gli atti giudiziari, e la
soppressione dei diritti di cancelleria e della tassa di iscrizione a ruolo,
ferme restando le preesistenti aree di esenzione (es. lavoro, agraria).
Naturalmente, per effetto dell'horror vacui che caratterizza il settore
delle entrate, a fronte dei tributi soppressi in tutto o in parte, è prevista l'istituzione
di un altro costo: il contributo unificato di iscrizione a ruolo. Il nuovo
sistema prefigurato dal governo prevede appunto un contributo commisurato al
valore della causa, secondo i seguenti parametri:
- nulla fino a 2.000.000 (come già avviene ora)
- L. 50.000 da 2.000.001 a 10 milioni
- L. 300.000 da 10.000.001 a 25 milioni
- L. 600.000 da 25.000.001 a 50 milioni
- L. 800.000 da 50.000.001 a 100 milioni
- L. 1.300.000 da 100.000.001 a 500 milioni
- L. 2.000.000 da 500.000.001 a 1 miliardo
- L. 3 milioni da 1.000.000.001 a 3 miliardi
- L. 5 milioni da 3.000.000.001 a 10 miliardi
- L. 10 milioni per cause superiori a 10 miliardi.
Dato molto importante: le cause di valore
indeterminabile, cioè quelle in cui la parte non prende posizione al momento
della instaurazione sul valore perché non ha ancora gli elementi, o comunque
perché non intende prefissarsi un limite alla domanda, sono comprese nello
scaglione da 500 milioni a 1 miliardo, quindi pagano 2 milioni di contributo
unificato.
E' interessante vedere anche chi è tenuto al pagamento: la parte che prima si
costituisce in giudizio, chi propone una domanda riconvenzionale nei giudizi di
cognizione, mentre nelle esecuzioni il creditore procedente e il creditore che
interviene. In quest'ultimo caso è evidente l'effetto perverso della
riforma, in quanto ogni creditore intervenuto (che prima pagava la sola imposta
di bollo sul ricorso, atto di per sé molto semplice) ora deve pagare
autonomamente il contributo. L'aumento del costo è quindi enorme.
L'intervento fiscale pone poi un serio problema
processuale: la dichiarazione di valore deve essere contenuta espressamente
nelle conclusioni, quindi è un limite della domanda giudiziale: se agisco per
il risarcimento del danno da incidente stradale dovrò correre il rischio di
chiedere meno di quanto in ipotesi dovuto, ovvero pagare di più e proporre una
domanda sostanzialmente indeterminata.
Ben poco ragionevole è inoltre l'obbligo di pagamento del contributo a carico
anche di chi propone una domanda riconvenzionale, dal momento che questa si
innesta necessariamente in un procedimento già iscritto a ruolo e che quindi ha
già scontato il contributo unificato.
Con brevi ed efficaci osservazioni uno studioso
di diritto tributario, Enrico De Mita2
ha posto in evidenza l'anomalia strutturale di questa riforma. Al posto di una
tassa, cioè ad un corrispettivo per un servizio richiesto all'utente in
misura paritetica, si intende introdurre un quid riconducibile più ad
una imposta, in quanto legata proporzionalmente al valore della causa. L'organizzazione
della giustizia è un compito primario dello Stato al quale deve farsi fronte
con l'imposizione diretta, mentre il singolo servizio (cioè la singola causa)
va pagato in misura eguale, perché uguale è il servizio stesso (una causa da
un miliardo impegna le medesime risorse di una da 10 milioni). Addirittura De
Mita prefigura un possibile rilievo di incostituzionalità, dal momento che il
contributo, o meglio il valore della causa al quale è ragguagliato il
contributo non sembra in alcun modo correlato alla capacità contributiva (del
soccombente o della parte vittoriosa?) che è parametro costituzionale
fondamentale delle imposte.
Resta solo da dire che è stata ampiamente
sfruttata una nuova occasione per fare della finta semplificazione: invece di un
contributo unico, anche più elevato (anche se in termini ragionevoli), si è
introdotto un meccanismo alquanto più oneroso (gli avvocati scrivono meno di
quanto si pensi, e non scriveranno di più perché non c'è più il bollo; in
ogni caso questo costo sarà a carico diretto del cliente al quale sarà chiesta
la somma occorrente) e fonte di complicazioni sostanziali, per tacere dello
scandaloso balzello introdotto nella fase esecutiva in cui il creditore, una
volta ottenuto il titolo è "costretto" a rivolgersi nuovamente allo
stato per ottenere ciò che gli spetta.
C'è da augurarsi che il Parlamento intervenga
sul punto, perché la Ragion di Stato, anzi di gettito, non provochi lo
stravolgimento di principi essenziali.
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1
I diritti di cancelleria per le copie fino ad alcuni anni fa erano pagati in
contanti, ma le complicazioni derivanti dalla gestione del danaro incassato
(obbligo di rendiconto, unico registro di contabilizzazione) portarono all'introduzione
delle ben note marche "madre e figlia" e. all'aumento del costo
delle copie.
2
Nel Sole 24 Ore del 6 novembre 1999, pag. 17.
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