Sembra proprio che il tribunale di Bolzano abbia acquisito
una sorta di “specializzazione” in decisioni sul diritto d’autore in un
certo modo innovative e che si distinguono, come scritte dalla stessa mano, per
una non comune, almeno tra i giuristi, conoscenza del mezzo tecnologico nonché
per un orientamento spiccatamente liberale.
Dopo l’ordinanza
del dicembre 2003 in tema di modifiche alle Playstation (detto per
inciso, corretta nelle conclusioni ma fondata, tra l’altro, su non pertinenti
questioni relative misure tecnologiche ex art. 102-quater LDA),
questa volta, con la sentenza del
31 marzo scorso, i giudici bolzanini si sono occupati di software giungendo
al proscioglimento dell’imputato sulla scorta di due ordini di importanti
considerazioni (vedi anche Duplicazione abusiva se
mancano scatole e manuali? di Andrea Monti).
Il primo gruppo, che caratterizza l’intera pronuncia,
riguarda le regole che governano l’onere dalla prova; il secondo nucleo,
purtroppo passato in secondo piano, concerne il selettore punitivo “scopo
commerciale o imprenditoriale” della condotta di detenzione contemplata dall’art.
171-bis, comma 1, della legge sul diritto d’autore.
In ordine al primo profilo, non è affatto facile argomentare
soltanto sulla scorta di una sentenza, variamente motivata, che, per dirla
tutta, sembra aver punito più l’inerzia degli inquirenti e i “prepotenti”
produttori di software (con le loro odiose “licenze a strappo”) che fissato
un principio universalmente adottabile. Bisognerebbe, infatti, conoscere meglio
gli atti che stanno dietro ogni decisione e che in essa possono essere soltanto
brevemente richiamati e riassunti.
Ad ogni modo, piaccia o meno a giudici e commentatori, l’approccio
formale degli inquirenti non è del tutto ramingo e, anzi, ha un suo preciso
fondamento legislativo, trovando le sue origini, per il software, nella legge 248/2000. Certo, l’art. 181-bis LDA (comma 3) e il
relativo il regolamento (DPCM. 11 luglio 2001, n. 338), disciplinando la
dichiarazione identificativa in sostituzione della vidimazione, hanno fissato
importanti eccezioni, ma il fulcro della disciplina sul software (come già per
i prodotti audio e video – ma il regime è confermato anche per le banche di
dati) è il contrassegno SIAE: aspetto meramente formale, anzi “segno
distintivo di opera dell'ingegno” (art. 181-bis, comma 8, LDA).
Potrà essere inopportuno (e chi scrive non ne ha mai
nascosto le propri perplessità) o, addirittura, illegittimo (si ricordi l’ordinanza del tribunale di Cesena, con la quale veniva posta
in dubbio la compatibilità del contrassegno con le norme comunitarie), ma il
“bollino” ha la sua centralità.
Ciò non significa, beninteso, che si debba radicare una
settoriale – quanto inaccettabile - inversione dell’onere della prova.
Ricordiamo tutti, oltre alle menzionate esenzioni previste del regolamento, il
vero e proprio diritto alla copia di backup, ma non si può negare che l’indagato
ha numerosi strumenti (anche quelli post avviso ex art. 415-bis
c.p.p.) per provare, anche agevolmente, la propria innocenza e che una sua
eventuale inerzia potrebbe essere intesa, psicologicamente, come un
riconoscimento di colpevolezza. Ed è difficile non ritenere la sussistenza di
una situazione di illegittimità nell’assenza di ogni package o,
peggio, in presenza di installazioni multiple di una sola, apparente, licenza
(moltiplicazione che, peraltro, inquadrerebbe la condotta in un altro, più
rigoroso, alveo, cioè quello della duplicazione).
Ma la sentenza in commento, lungi dal costituire uno spunto
di riflessione soltanto sulle indagini in tema di reati informatici (o che
riguardano l’informatica) rappresenta, per quanto noto a chi scrive, la prima
pronuncia su un aspetto non trascurabile del regime penale del software: la
detenzione da parte di un professionista per l’uso nella propria attività.
Come è noto, sempre la L. 248/2000 ha profondamente influito
sulle norme penali sul diritto d’autore, specie sul regime dei programmi per
elaboratore in relazione agli abusi sui quali dal previgente dolo di lucro si è
passati a quello di profitto richiedendo in più, per la condotta di detenzione,
lo scopo commerciale (già contemplato prima della riforma) o imprenditoriale
(novità del 2000). Ciò, come sanno bene coloro che hanno seguito l’iter
della riforma, soprattutto per colpire senza titubanze il “risparmio di spesa”
anche se sulla scorta di indicazioni di “parti” non sempre padrone di una
buona tecnica legislativa, anzi non del tutto consapevoli delle implicazioni
delle loro pressioni.
Si è discusso a lungo, già dal 1992, delle questioni
riguardanti lo scopo commerciale nei vari passaggi legislativi: dal testo
originale della direttiva 91/250/CE (che parlava di “commercial purposes”),
passando per la traduzione italiana (scopo commerciale) e per la legge delega
489/92 (“detenzione per la commercializzazione”) giungendo, appunto, al
finale scopo commerciale inserito nell’art.
171-bis LDA.
Qui, basti ricordare che, malgrado l’interpretazione di parte della dottrina
(per tutti, G. Pica) secondo la quale per “scopo commerciale” doveva e deve
intendersi la destinazione alla commercializzazione (non soltanto per la
vendita), la Cassazione si era orientata
per il più ampio – e diverso – uso in ambito imprenditoriale (commerciale?)
saltando, peraltro, a piè pari l’imbarazzante questione sull’adombrato
eccesso di delega.
Appare, però, di tutta evidenza la coincidenza con lo scopo
imprenditoriale post L. 248/2000, dunque la sua (apparente) superfluità,
forse il suo diverso significato. Laconica, quanto insoddisfacente, la
Cassazione: “una specificazione di corretto recepimento della direttiva
comunitaria”.
Sorprendentemente, il GIP di Bolzano, sembra, però, aver
seguito una via molto diversa – nonché erronea – affermando che lo “scopo
imprenditoriale” “si riferisce alla condotta di chi commette il fatto “esercitando
in forma imprenditoriale attività di riproduzione, distribuzione, vendita o
commercializzazione, importazione di opere tutelate dal diritto d'autore”.
Chi scrive, rimane dell’idea che scopo commerciale e scopo
imprenditoriale (che non posso essere elementi tautologici o, con l’eufemismo
della Suprema Corte, il secondo specificazione del primo) siano da distinguere:
destinazione alla commercializzazione e destinazione all’uso nell’àmbito di
un’impresa.
Fermo resta che, come affermato dal giudice di Bolzano, pur
attraverso un percorso ben diverso, il professionista ed anche un’associazione
(e, contrariamente a quanto esclamato dal GIP altoatesino, non è assurdo o
inaccettabile) non potranno commettere il reato de quo in quanto figure
che, come è universalmente noto, il nostro ordinamento, incontestabilmente,
distingue da quella dell’imprenditore.
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