Quando la smart card diventa
un souvenir
di Ugo Bechini* - 21.09.01
Kinsale, Irlanda meridionale. La mattina del 9 agosto la prima pagina dell'Irish
Times scuote le mie sonnacchiose vacanze nella terra di James Joyce e Sinead
O'Connor: la Gateway di Dublino chiude per mancanza di commesse. Non è una
fabbrica qualunque: qui Bill Clinton, allora presidente degli Stati Uniti, e
Bertie Ahern, Taoiseach d'Irlanda (titolo gaelico che equivale grossomodo
a premier) per la prima volta nella storia firmarono digitalmente un
trattato internazionale, utilizzando i prodotti di una softwarehouse
locale, la dublinese Baltimore. Era il 4 settembre 1998.
Nei quotidiani irlandesi dei giorni successivi serpeggia una certa
inquietudine: l'epopea della Tigre Celtica ha subìto il primo serio scossone.
Anni di successi economici, celebratissimi anche da Silvio Berlusconi, sono al
capolinea? Probabilmente no: troppo evidenti i vantaggi strategici che l'isola
può vantare, a cominciare da quello linguistico, che consente al personale
irlandese di integrarsi in modo molto immediato nel tessuto produttivo delle
multinazionali basate negli USA. Senza poi considerare la poderosa "riserva
naturale" rappresentata dai lavoratori qualificati irlandesi emigrati nel
Regno Unito, spesso disponibili ad accettare posti di lavoro meno retribuiti
purché in patria. Resta il fatto che troppi degli insediamenti attirati in
Irlanda dalle favorevoli condizioni fiscali e normative non sono strategici per
le case madri, né dal punto di vista tecnologico né da quello industriale e
quindi, come nel caso Gateway, rischiano di scomparire alla prima congiuntura
sfavorevole senza lasciare dietro di sé tracce significative. Gli irlandesi lo
sanno perfettamente, e da tempo cercano di privilegiare lo sviluppo di
tecnologia locale rispetto al proliferare di "fabbriche cacciavite".
Comunque sia di ciò, l'euforia di quel 4 settembre 1998 è evaporata per
sempre.
La storica cerimonia, a dire il vero, aveva avuto un epilogo curioso, che col
senno di poi potrebbe dirsi di cattivo auspicio. A firma apposta, i due leader
si alzarono e con convinzione si scambiarono le smart card (l'episodio è
documentato sul sito di Irish Times da una foto
di Frank Miller). La prima sensazione è che i due uomini, a dispetto dei briefing
che la NSA non avrà certo fatto loro mancare, non avessero troppo ben presente
cosa stavano maneggiando, e che quindi si siano scambiati i token come
fossero protocolli cartacei. Ma ammettiamo pure che abbiano voluto solo compiere
un generico gesto di cortesia ad uso e consumo dei fotografi, od uno scambio di souvenir:
quelle smart card, in fondo, non erano certo destinate ad essere
riutilizzate. Si tratta pur sempre di una Waterloo sul piano simbolico. Non si
vede a cosa possa servire una firma digitale se non a creare documenti la cui
sicurezza prescinde dal fisico contatto (ed anche dalla reciproca conoscenza)
delle parti. Quello scambio di smart card, culturalmente, fu appropriato
quanto mandare una compagnia di ballerine in topless ad accogliere il Papa. Rese
evidente che la firma digitale che i due leader stavano officiando in realtà
non serviva affatto, neppure come componente liturgica. E nei tre anni
trascorsi, la domanda "a cosa serve la firma digitale?" è in effetti
progressivamente divenuto un quesito sempre più ingombrante.
La legislazione italiana, la cui prima incarnazione appartiene all'anno
precedente, il 1997 (DPR 513), è frutto di
un'impostazione monistica. Vi si trova disciplinato un solo tipo di firma
digitale, diciamo pure "la" firma digitale, che fornisce ogni
possibile garanzia (certezza della provenienza, inviolabilità del contenuto) ad
ogni possibile utente, su scala potenzialmente planetaria, senza che occorra
alcun preventivo accordo tra firmante e verificante. Una sorta di arma totale, a
validità giuridica erga omnes, con piena equiparazione alla firma
cartacea. Ma a chi serve tutto questo?
L'e-commerce, ad esempio, sembra poterne fare magnificamente a meno. Sistemi
come l'SSL forniscono livelli di sicurezza assolutamente risibili se paragonati
a quella della vera firma digitale: quando il lucchettino si chiude in un angolo
del nostro browser, tutto ciò che sappiamo, in fondo, è che i dati che stiamo
inoltrando sono agevolmente leggibili solo dal server da noi prescelto. Se
compro un biglietto aereo in Rete, l'unica cosa che SSL fa è assicurare (più o
meno) che solo la compagnia potrà accedere al numero della mia carta di
credito. Ma in fondo è tutto quel che occorre all'utente medio.
Tecnologicamente parlando è ben misera cosa: non c'è alcuna pratica
possibilità di provare su basi obiettiva quali dati siano stati trasmessi;
manca un'identificazione certa (sempre su basi obiettive) del soggetto operante
sul lato client; la sicurezza sul piano strettamente crittografico è tutt'altro
che allo stato dell'arte. Ma sono tutti aspetti che al consumatore interessano
assai poco: se molti restano diffidenti, io credo, non è perché non basti loro
ciò che la tecnologia SSL offre, ma perché non sono convinti che il
marchingegno mantenga ciò che promette. Analoghe considerazioni potrebbero
ripetersi anche in materia di home banking e per altri servizi, che
possono perfettamente basarsi su sistemi di variabile configurazione, il cui
valore giuridico si basa sull'adesione convenzionale delle parti, e non su una
previsione legislativa di portata generale.
Nella produzione normativa più recente è non a caso prevalso un modello
diverso ed indiscutibilmente più realistico, che tra l'altro riguarda
direttamente il nostro orizzonte giuridico in quanto fatto proprio dalla direttiva
1999/93/CE dell'Unione, il cui termine d'attuazione è scaduto il 19 luglio
scorso. Viene ricondotta alla nozione di firma elettronica una gamma indefinita
di strumenti. L'estremo superiore, almeno allo stato della tecnologia, coincide
approssimativamente con la figura (sinora unica) nota alla legislazione italiana
e ne viene sancita l'equivalenza alla firma cartacea; all'estremo inferiore
dell'arco possono collocarsi modelli enormemente meno sicuri e completi, di più
limitata efficacia giuridica. Un'impostazione, se vogliamo, à la carte, non
dissimile da quella della legge californiana del 1995, il cui stringatissimo
testo si limita a stabilire quali siano i requisiti (molto simili a quelli
europei) perché la firma digitale sia equiparata a quella cartacea, lasciando
campo aperto su quasi tutto il resto con speciale enfasi, in perfetto stile a
stelle e strisce, sui liberi accordi preventivi tra le parti interessate.
Requiem per la firma elettronica "a tutto tondo"? Nient'affatto. Se
l'esperienza ha dimostrato che non si tratta di una soluzione buona a tutti gli
usi, ciò non vuol dire che non esistano applicazioni ove le sue caratteristiche
sono e restano indispensabili. Mi sia perdonata la goffaggine di un riferimento
alla mia professione. In ambito notarile, occorre che i documenti siano validi erga
omnes, da chiunque verificabili ed a prova di alterazione: un set di
esigenze che non permette sconto alcuno rispetto alle più rigorose tecniche
disponibili, ed anzi impone un'implementazione assai cauta ed approfondita. Se
qualunque manuale insegna come accertarsi che è proprio Alice la mittente del
messaggio giunto a Bob, con ciò si è risolto solo una parte del problema.
Applicazioni critiche che coinvolgano l'esercizio di pubbliche funzioni
impongono frequentemente che sia disponibile una verifica in tempo reale della
qualifica, oltre che dell'identità. Se Tizio esibisce a Caio la procura con
firma di Sempronio autenticata digitalmente dal notaro Romolo Romani, non si
vede come fare a meno di un sistema che consenta a Caio di accertare che Romolo
Romani è (od almeno era, al momento in cui ha operato) un notaro in regolare
esercizio.
Si obietta frequentemente che così ragionando si pretende immotivatamente
dalla firma elettronica l'obbedienza a parametri di sicurezza superiori a quello
offerti dalla carta. Chi mai esegue nel mondo cartaceo una verifica del tipo
appena descritto?
Vero, ma non immotivato. Non bisogna dimenticare che nella firma
digitale una sequenza di bit deve rimpiazzare, da sola, una pluralità di
elementi, che nel supporto cartaceo concorrono a formare un quadro di
certezza affinato e sperimentato nel corso dei secoli. Come è stato scritto:
"I documenti cartacei sottoscritti posseggono attributi intrinseci di
sicurezza che sono assenti nelle documentazioni informatiche. Tra questi l'ineliminabilità
dell'inchiostro assorbito dalle fibre della carta, l'inimitabilità di ogni
procedimento di stampa (ad esempio per la carta intestata), le filigrane, i
parametri biometrici della firma (pressione, forma, direzione della penna sono
caratteristici dell'autore della firma) la disponibilità di timestamp (come
i timbri postali), e la visibilità di modifiche, interlinee e
cancellature".
No, non è il frutto della penna d'oca di un notaio vecchio
stile: il brano è tratto dalla seconda edizione (2001) di Secure Electronic
Commerce, Prentice Hall (Upper Saddle River, New Jersey), pagina 5. Autori
Warwick Ford e Michael S. Baum: proprio loro, i due vicepresidenti di VeriSign.
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