Ovvero: quando il legislatore fa confusione con le parole... Piccola
premessa. Succede spesso: mentre preparo un articolo per la pubblicazione su
queste pagine, sono colto da perplessità su qualche affermazione dell'autore o
sulla forma in cui è espressa. Uno scambio di idee per telefono o via e-mail,
qualche modifica al testo, ed è fatta. Ma questa volta non è andata così:
dopo lunghe discussioni, il
disaccordo tra Paolo Ricchiuto e me per l'articolo Buste
paga via posta elettronica: sì, ma come? è rimasto. Dunque pubblico il suo
pezzo e aggiungo qui qualche mia considerazione, nell'ottica di aperto confronto
che ha sempre caratterizzato InterLex. Se qualcuno vuole intervenire nella
discussione, è benvenuto. Il punto controverso. Ricchiuto commenta un documento del Ministero del lavoro
(un cosiddetto "interpello") nel quale si affronta la possibilità
della "consegna" del "cedolino" dello stipendio al
lavoratore via posta elettronica. Il Ministero conclude che si può fare, usando
la posta elettronica certificata (PEC).
Come ben sa chi segue l'evoluzione del diritto delle tecnologie, la PEC altro
non è che la versione telematica della raccomandata postale. Come questa,
esiste di fatto in due versioni: il messaggio inviato dal server di un gestore di posta
elettronica certificata a un server di posta elettronica "normale" , che corrisponde alla raccomandata
semplice, e quello che si impiega quando anche il destinatario dispone di una
casella di PEC; in questo caso è possibile attestare la ricezione del messaggio
e quindi si riproduce il meccanismo della raccomandata con ricevuta di ritorno. Ora
il punto è questo: Ricchiuto, analizzando la normativa vigente e il documento del Ministero del lavoro, conclude che per avere la prova della
"consegna" (attenti alla parola!) via e-mail del cedolino è
necessario che anche il lavoratore che lo riceve abbia una casella di posta
certificata. Il che rappresenta una complicazione organizzativa e una spesa
rilevante, nel caso di aziende con molti dipendenti.
Il ragionamento fila, ma la logica impeccabile conduce a un risultato, a mio
avviso, errato: l'invio del documento per posta elettronica certificata è
valido anche se solo l'azienda-mittente dispone della PEC, che certifica
l'avvenuta spedizione. Vediamo perché. La norma del 1953 dice che il datore di lavoro deve
"consegnare" il cedolino insieme al compenso (ovvio che il dipendente
firmi una ricevuta, che si riferisce all'insieme soldi-cedolino). A quel tempo,
e fino a pochi anni fa, "consegnare" significava dare materialmente a
qualcuno un oggetto, che passava materialmente dalla mano del consegnante a
quella del ricevente. Consegna e ricezione erano contestuali. Altrimenti si
aveva la "spedizione" alla quale corrispondeva, in un momento e in un
luogo diverso, la "ricezione".
Con l'avvento della telematica, si assiste sempre più di frequente a un
passaggio dalla "consegna" alla "spedizione" di documenti,
con tutti i vantaggi che ne derivano. La posta elettronica certificata consente
di avere un'attestazione legalmente valida dell'avvenuta spedizione: è quello
che serve al datore di lavoro per provare di avere "consegnato" il
cedolino al dipendente. Come si può giungere alla conclusione che anche il
ricevente deve avere la casella PEC, per produrre il documento corrispondente
alla ricevuta di ritorno della raccomandata cartacea? Seguendo letteralmente il
testo delle norme. Il regolamento sulla posta elettronica certificata (DPR 68/05) definisce "posta
elettronica certificata, ogni sistema di posta elettronica nel quale è fornita
al mittente documentazione elettronica attestante l'invio e la consegna di
documenti informatici". Dunque, stando a questa prima affermazione la
"ricevuta di ritorno" è un elemento essenziale della PEC. Peraltro in
tutto il regolamento non si fa menzione esplicita della possibilità di spedire
messaggi da una casella PEC a una normale, riproducendo il meccanismo della
raccomandata semplice (che, lo ricordiamo, dà solo la prova dell'avvenuta
spedizione). Questa possibilità, tuttavia, è tecnicamente "normale". Ora
il regolamento in questione definisce "ricevuta di avvenuta consegna"
il documento che il gestore PEC di destinazione invia al mittente, mentre quella
di partenza è definita "ricevuta di accettazione". Dunque, argomenta
Ricchiuto, se l'azienda deve provare la "consegna" deve avere la
"ricevuta di avvenuta consegna". Impeccabile.
Il fatto è che con la posta elettronica la trasmissione di un documento
comporta due, anzi tre diverse azioni di consegna: dal mittente al proprio
gestore, dal gestore del mittente a quello del destinatario, da questo secondo
gestore alla casella del ricevente. A quest'ultima operazione si riferisce la
ricevuta di avvenuta consegna. Conclusione. Ora, se rileggiamo la norma
del '53 "È fatto obbligo ai datori di lavoro di consegnare..." non
abbiamo dubbi che essa si riferisca all'azione materiale del consegnante. Quindi
la prova della "consegna può essere data dalla "ricevuta di
accettazione", che attesta l'adempimento dell'obbligo da parte
dell'azienda.
E questa mi sembra la soluzione corretta, scelta dal Ministero del lavoro,
quando conclude che si può "trasmettere il cedolino di paga come file
allegato ad un apposito messaggio di posta elettronica, a condizione che venga
inviato ad indirizzo di posta elettronica intestato al lavoratore provvisto di
password personale". Cioè un normale indirizzo di posta elettronica, non
di posta elettronica certificata. Tutto si gioca sul significato della parola
"consegna" e sul suo mutamento con l'uso delle tecnologie. Ancora una
volta, il legislatore dovrebbe adottare definizioni più chiare e aderenti alla
sostanza delle cose.
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