Per un'interpretazione diversa vedi Buste paga via posta
elettronica? C'è la PEC... di Manlio Cammarata.
Il tema della dematerializzazione dei documenti e dei processi operativi è
senza alcun dubbio la chiave di volta per una organizzazione imprenditoriale
moderna: riuscire a gestire mediante gli strumenti elettronici e telematici le
miriadi di adempimenti che, con l’approssimarsi di ogni fine del mese,
incombono sulle strutture amministrative di qualsiasi azienda, significa
risparmiare tempo, soldi, energie.
Tanto, tantissimo si sta facendo su mille fronti.
E allora ci si è chiesti: piuttosto che stampare e consegnare le buste paga
ai dipendenti, perché non inviargliele per posta elettronica ? Dal punto di
vista pratico, nessun dubbio che si tratti di quella che qualcuno potrebbe
chiamare una win-win policy: da un lato, ci guadagna l’azienda, che
snellisce in modo decisivo l’adempimento (soprattutto quando i lavoratori sono
decine, centinaia o migliaia); dall’altro, ricevere per via telematica la
busta paga è un vantaggio anche per il dipendente, che potrà formarsi
agevolmente un archivio elettronico dei suoi cedolini (oltre che, per i più
evoluti, utilizzare procedure di import dei dati e di ri-elaborazione degli
stessi, magari per verificare che non ci siano stati errori).
Nell’ambito del rapporto di pubblico impiego, questa procedura ha trovato
da tempo la sua copertura formale con la legge finanziaria 2005 - art. 1 comma
197 (che ha affermato il principio) e con il successivo decreto del ministero
dell’economia 12.01.06 (che ha dettato le regole operative per la gestione via
e-mail dell’adempimento).
In assenza di una disciplina specifica, c’è qualche ostacolo normativo
affinché questa prassi possa considerarsi legittima anche per il rapporto di
lavoro privato?
La domanda è stata posta da un’associazione di categoria nelle forme dell’interpello
al Ministero del lavoro, la cui direzione generale per l’attività ispettiva
ha risposto l' 11 febbraio 2008.
Il documento lascia molto,
molto perplessi, e ciò sia per l’iter logico giuridico seguito da chi lo ha
congegnato, sia per le conclusioni alle quali giunge.
Cerco di spiegare perché.
La normativa cui fare riferimento (applicabile ai soli rapporti privatistici)
è la legge 05.01.1953 n. 4, che al suo art. 1 prevede :
È fatto obbligo ai datori di lavoro di consegnare, all'atto della
corresponsione della retribuzione, ai lavoratori dipendenti, con esclusione dei
dirigenti, un prospetto di paga in cui devono essere indicati il nome, cognome e
qualifica professionale del lavoratore, il periodo cui la retribuzione si
riferisce, gli assegni familiari e tutti gli altri elementi che, comunque,
compongono detta retribuzione, nonché, distintamente, le singole trattenute.
Tale prospetto paga deve portare la firma, sigla o timbro del datore di lavoro o
di chi ne fa le veci.
Chiarisce poi l’art.3:
Il prospetto di paga deve essere consegnato al lavoratore nel momento stesso
in cui gli viene consegnata la retribuzione.
Se della norma si dà una lettura fedele ed equilibrata, ne derivano due
considerazioni importanti.
La prima (nemmeno fatta oggetto di alcuna riflessione nell’interpello 1/08) è
che il prospetto paga non è un documento che deve essere necessariamente
sottoscritto dal datore di lavoro, essendo possibile sostituire alla firma la
“sigla o il timbro” del medesimo, o addirittura di “chi ne fa le veci”.
Tradotto a livello di codice dell’amministrazione digitale (così come
modificato dal DLGV 159/06), ciò significa che per la validità ed efficacia
del prospetto paga chiamiamolo elettronico, non è richiesto l’utilizzo della
firma digitale (o firma elettronica qualificata, come mezzo equipollente – o…
più che equipollente, secondo alcuni - alla sottoscrizione autografa).
Dal punto di vista dei requisiti strutturali della busta paga, dunque, per
quanto ciò possa risultare abbastanza sconcertante, non sembra vi siano
problemi di sorta al suo palesarsi in un semplicissimo file anche non
sottoscritto (con tutti i problemi che derivano dalla mancanza di una previsione
quantomeno relativa al formato da utilizzare ai fini della immodificabilità del
file).
Il massimo della semplicità, dunque. Anche troppa. Ma c’è di più.
La norma, se letta con la dovuta attenzione, prevede l’ “obbligo
di consegna” del cedolino al momento della corresponsione della retribuzione.
Nulla di più. Il che significa che il datore di lavoro che sia chiamato a
dimostrare di aver consegnato la busta paga al dipendente, non è astretto da
alcun vincolo circa lo strumento probatorio attraverso il quale fornire tale
prova. E dunque, ad esempio, nel mondo fisico, potrà assolvere all’onere
probatorio utilizzando lo strumento più sicuro, e quindi producendo una busta
paga sottoscritta per ricevuta dal dipendente; ma nulla vieta (certo non lo
vieta la legge 4/53) che l’onere probatorio sia assolto mediante una prova
testimoniale.
Allo stesso identico modo, spostando l’attenzione sull’eventuale consegna
della busta paga informatica (o informatizzata) per via telematica, in assenza
di altri punti di riferimento, la legge 4/53 non pone vincolo alcuno in ordine
alla prova dell’avvenuta consegna. Di tal che i più avveduti possono
affidarsi allo strumento più evoluto – la posta elettronica certificata –
ma ciò non esclude che la prova possa essere fornita in altre forme (si pensi,
ad esempio, mutuando una soluzione delineata dal DLGV 70/03 in materia di
commercio elettronico – art. 13 comma 2 - alla previsione organizzativa che
vincoli il lavoratore che riceve la e-mail contenente la busta paga sul proprio
semplicissimo account personale, ad inviare al datore di lavoro una e-mail di
risposta che attesti l’avvenuta ricezione – “accusi ricevuta”, nella
dizione del DLGV 70/03 - della comunicazione contenente il file con la busta
paga).
Ora, rispetto a tale scenario abbastanza chiaro, il Ministero del lavoro,
nell’interpello in commento, arriva a conclusioni opposte, a mio modestissimo
avviso errate, per un motivo abbastanza semplice: cioè che parte da una
premessa apparentemente errata . Si legge, infatti, nell’interpello: “in
linea di principio non si ravvisano motivi ostativi all’invio del prospetto di
paga con posta elettronica, se si considera la prassi generalizzata dell’accredito
diretto dello stipendio in conto corrente bancario e la notevole
diffusione delle conoscenze informatiche, purché vi sia la prova legale dell’effettiva
consegna del prospetto di paga al lavoratore alla scadenza prevista per il
pagamento della retribuzione.”
Prova legale di effettiva consegna. Cosa intende il Ministero per “prova
legale”? Presumibilmente (lo si capisce dalla soluzione ipotizzata) si intende
dire che il datore di lavoro nel soddisfare all’onere probatorio previsto
dalla norma, sia costretto a fornire la dimostrazione dell’avvenuta consegna
soltanto utilizzando determinati strumenti. Principio, come abbiamo visto, in
nessun modo affermato dalla normativa di riferimento, richiamata dal Ministero
con una latitudine che in realtà non gli appartiene.
E’, lo ripeto, da questa erronea deduzione (da questo abbaglio, mi permetto
di dire) che deriva la formalistica soluzione adottata dal Ministero, a tenore
della quale l’unica strada che il datore di lavoro può percorrere per provare
la consegna del prospetto paga via posta elettronica, sia l’utilizzazione
della posta elettronica certificata: “Alla luce di quanto sopra, l’azienda
che utilizza il servizio di posta elettronica certificata seguendo le procedure
previste dalle norme richiamate, nel rispetto delle regole in materia di
protezione dei dati personali, potrà validamente assolvere agli obblighi di
consegna del prospetto di paga anche per via telematica”.
Ecco dunque che da una mancanza di prospettiva, si arriva ad una soluzione
che limita il campo d’azione dell’invio telematico della busta paga ad
ambiti limitatissimi.
E’ il caso infatti di ricordare che il sistema della PEC, per poter operare quale
strumento probatorio dell'avvenuta ricezione della comunicazione, può
funzionare soltanto laddove mittente e destinatario siano entrambi dotati di
account certificati.
Quando il Ministero, nell’interpello 1/08, richiede la “prova legale
della consegna”, dunque, deducendo che la medesima possa essere integrata dall’uso
della PEC, automaticamente afferma due principi molto chiari, e cioè: a) che
non può considerarsi sufficiente la semplice prova della spedizione del
messaggio di posta; b) conseguentemente, che non solo il datore di lavoro, ma
anche il lavoratore devono essere dotati di account di posta certificati, atteso
che, nel diverso caso in cui il messaggio di posta sia inviato da un account
certificato (quello del datore di lavoro) ad uno che non lo è (quello del
lavoratore) il mittente potrà contare, sì, sulla prova dell’avvenuta
spedizione (la cd. ricevuta di accettazione – RdA - rilasciata al mittente dal
gestore del servizio e del punto di accesso – PdA). Ma, esattamente come
accade per una lettera raccomandata semplice (senza ricevuta di ritorno), il
mittente non sarà in grado di fornire la prova dell’avvenuta ricezione, con
effetti dunque non spendibili ai fini del rispetto degli oneri probatori fissati
dalla L. 4/53 relativamente alla avvenuta consegna del cedolino paga.
Così ricostruito il quadro che emerge dall’interpello, appare evidente la
portata minimale della platea di soggetti che realmente sono interessati dal
medesimo: è un dato di comune esperienza, infatti, la scarsa diffusione sul
mercato della PEC per le aziende. E, al di là di ciò, ad oggi almeno per chi
scrive, sono sconosciute esperienze in cui il datore di lavoro si sia premurato
(e si sia sobbarcato l’esborso) di dotare tutti i propri dipendenti di un
account personale certificato, strumento che il lavoratore medio non ha di norma
alcun interesse ad utilizzare di propria sponte e con costi a proprio carico.
Risultato: secondo l’interpretazione data dal Ministero, quasi nessuno
potrà legittimamente inviare le buste paga per posta elettronica. Sul punto,
quindi, attesa la portata del tema, è (diciamolo eufemisticamente) auspicabile
che gli organi competenti prendano nuovamente posizione, cercando da un lato, di
dare applicazione al vero contenuto delle norme; dall’altro, di individuare
soluzioni effettive, e non tali da essere incompatibili in partenza con la
realtà operativa. Nota: Paolo Ricchiuto sarà relatore nel seminario InterLex
Organizzazione,
privacy, sicurezza: applicare le nuove norme che si terrà a Roma il 28
maggio prossimo.
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