| Non serve
        una banca per le certificazionidi Manlio Cammarata -
        15.09.97
 Il 5 agosto scorso il
        Consiglio dei Ministri ha approvato il regolamento
        attuativo del secondo comma dell'articolo 15 della prima "legge
        Bassanini", la n. 59 del 15 marzo scorso, e lo ha
        inviato al Consiglio di Stato e alle competenti
        commissioni parlamentari per il prescritto parere. Il
        testo modifica in diversi punti la forma del secondo
        schema preparato
        dall'Autorità per l'informatica nella pubblica
        amministrazione e aggiunge alcune disposizioni che
        elencano i requisiti degli enti privati di
        certificazione. Su questi requisiti si possono nutrire
        forti perplessità. Per mettere bene a fuoco i
        termini della questione è opportuno riassumere la storia
        del provvedimento. Il primo schema pubblicato dall'AIPA sul suo sito meno di un anno fa presentava
        molti aspetti positivi. Infatti accoglieva in pieno
        l'impostazione dei sistemi di autenticazione e
        certificazione in uso su Internet e poneva le basi non
        solo per un efficace sviluppo delle attività economiche
        in rete (in particolare il commercio elettronico), ma
        soprattutto per il funzionamento della futura rete
        unitaria della pubblica amministrazione e quindi per
        un'effettivo miglioramento dell'attività degli uffici e
        dei rapporti con i cittadini. Due punti si prestavano a
        critiche (vedi i diversi interventi nell'indice di questa sezione): il primo era
        la possibilità del key escrow, cioè
        dell'affidamento della chiave privata di ogni cittadino a
        un'autorità, per rendere possibile, in determinati casi,
        la decodifica dei documenti; il secondo l'istituzione di
        un'imponente gerarchia di autorità certificatrici, che
        sovrapponeva un'inutile burocrazia a un meccanismo di per
        sé molto semplice. La seconda
        versione del
        progetto, resa pubblica e trasmessa al Governo all'inizio
        dell'estate, accoglieva in pieno le critiche avanzate
        sulla prima. Non solo escludeva il key escrow, con un
        riferimento esplicito all'articolo 15 della Costituzione,
        ma faceva piazza pulita di tutta la burocrazia prevista
        all'inizio. Un testo chiaro, evidentemente formulato da
        veri esperti della materia, al quale mancava un solo
        particolare: la definizione dei requisiti degli enti
        privati di certificazione. Un aspetto forse non
        essenziale sul piano tecnico, ma importante per la
        sicurezza delle transazioni. Perché è vero che la
        certificazione consiste nella pubblicazione della chiave
        pubblica dell'interessato, e di conseguenza qualsiasi
        falsificazione si smaschera da sé, ma un certificatore
        in mala fede può comunque compiere "inghippi"
        sulle date o sulle sospensioni della validità della
        chiave, rendendo possibili raggiri e truffe. Questa lacuna è stata
        colmata dal Governo nel testo
        inviato al Consiglio di Stato e alle Camere, ma con quello che potremmo
        definire un eccesso di zelo: l'articolo 8, comma 3, prescrive non solo che i soggetti
        preposti all'amministrazione del soggetto certificatore
        debbano avere i requisiti di onorabilità richiesti ai
        soggetti che svolgono funzioni di amministrazione,
        direzione e controllo presso le banche, e che i
        responsabili tecnici abbiano la competenza e l'esperienza
        necessarie per l'attività di certificazione, ma che i
        certificatori stessi siano società per azioni con un
        capitale sociale non inferiore a quello necessario per
        l'autorizzazione dell'attività bancaria: 12,5 miliardi
        di lire. In questo modo si toglie
        la possibilità di svolgere l'attività di certificazione
        a quasi tutti gli Internet provider italiani (i soggetti
        che per competenza tecnica e strutture possono fare
        meglio questo lavoro), senza una ragione accettabile. E'
        noto che la cifra necessaria a mettere in piedi un sito
        Internet efficiente è nell'ordine delle centinaia di
        milioni, non di miliardi, e che l'onestà e
        l'affidabilità degli operatori non sono in relazione al
        capitale sociale.Non si riesce a capire perché la possibilità di gestire
        gli archivi di certificazione debba essere riservata ad
        aziende di grandissime dimensioni. Banche, società di
        assicurazioni e simili in Italia non hanno la cultura e
        il know-how richiesti per questo tipo di
        attività, che potrebbero non avere interesse a gestire
        un servizio che non sembra possa generare introiti
        rilevanti. Resterebbero quindi i grandi gestori delle
        reti di telecomunicazioni: per ora tra questi solo
        Telecom Italia è un fornitore di servizi Internet, e
        quindi ha le strutture e l'organizzazione per svolgere il
        ruolo di certificatore delle firme digitali. Ma questo
        rafforzerebbe ancora la sua posizione nei confronti degli
        Internet provider privati, molti dei quali hanno la
        competenza tecnica e l'affidabilità richieste dallo
        schema di regolamento (e dal buon senso), ma non la
        dimensione societaria.
 Dunque è necessario
        rivedere questa norma prima che il regolamento riceva l'imprimatur
        definitivo. |