L'Italia sottoscrive la Convention on
Cybercrime del Consiglio d'Europa, varata a Budapest il 23 novembre 2001. Il
relativo disegno di legge (AS 2012)
è stato approvato definitivamente dal Senato il 20 febbraio scorso ed è in
attesa di essere promulgato dal presidente della Repubblica.
Si tratta dell'adesione a un trattato internazionale che prevede un
coordinamento, tra gli stati firmatari, della normativa penale e di procedura
penale in materia di reati informatici, in un'accezione molto ampia. E,
naturalmente, della cooperazione tra gli stessi stati per la repressione di
questi crimini. E' bene ricordare che il Consiglio d'Europa (Council of
Europe) è cosa diversa dall'Unione europea, che i suoi componenti non sono
necessariamente membri dell'Unione e che la Convention non è una direttiva ma,
appunto, un trattato internazionale, al quale possono aderire anche stati che
non sono membri dello stesso Consiglio.
Dunque non si tratta di un "recepimento", con le conseguenze che
conosciamo per le direttive comunitarie, ma di un adeguamento volontario
dell'ordinamento interno a una serie di regole internazionali. Dal momento che
molte delle norme previste dalla convenzione sono già presenti nel nostro
ordinamento, la legge appena approvata si limita ad aggiornarle, con una serie
di modifiche al codice penale e al codice di procedura penale. Un aggiornamento
che appare opportuno, fermo restando che in molti casi le norme italiane sono
più restrittive di quelle della convenzione e che le pene appaiono a volte
spropositate. Ma di questo ci occuperemo in un prossimo articolo. Qui dobbiamo
occuparci di una norma, estranea alla convenzione, che riguarda i servizi di
certificazione delle firme elettroniche. Si tratta dell'art. 3, comma 2 che
dice: Dopo l’articolo 495 del codice penale è inserito il seguente:
«Art. 495-bis. – (Falsa dichiarazione o attestazione al certificatore di
firma elettronica sull’identità o su qualità personali proprie o di altri).
– Chiunque dichiara o attesta falsamente al soggetto che presta servizi di
certificazione delle firme elettroniche l’identità o lo stato o altre qualità
della propria o dell’altrui persona è punito con la reclusione fino ad un
anno». E' la prima fattispecie di reato che viene introdotta in materia
di firme elettroniche. Si tratta di una innovazione quanto mai opportuna,
perché sanziona una prassi pericolosa quanto diffusa: la certificazione della
firma (qualificata) operata "per interposta persona", in sostanza la
consegna del dispositivo di firma e del PIN a un soggetto diverso dal
richiedente il certificato. Questi dovrebbe essere "identificato" dal
certificatore, a norma dell'art. 32,
comma 3, del codice dell'amministrazione digitale. Anzi, il certificatore deve
provvedere "con certezza" all'identificazione. Anche se la norma
appare più vaga di quella originaria del 1997, che recitava "identificare
con certezza", è chiara la criticità del riconoscimento ai fini della
sicurezza di tutto il processo (vedi L'identificazione nello schema del "codice": ancora
problemi). Abbiamo scritto più volte che, in forza della "pubblica
fede" sostanzialmente propria del certificato qualificato, la consegna del
certificato stesso a un soggetto diverso dal titolare (di solito un
commercialista) dovrebbe essere classificata come illecito penale; a questo
scopo avevamo suggerito - inutilmente - la qualificazione dell'addetto
all'identificazione e/o alla consegna del dispositivo di firma come
"incaricato di pubblico servizio".
Il legislatore ha seguito una strada diversa, ponendo la responsabilità penale
solo in capo al soggetto che dichiara il falso e non anche a quello che dovrebbe
usare una "speciale diligenza" nel ricevere la dichiarazione.
L'ennesimo favore ai certificatori, ma è meglio di niente. Comunque la
previsione di una sanzione penale per il falso in dichiarazione o attestazione
nella fase di certificazione avrà un effetto salutare nella percezione generale
del livello di sicurezza delle firme elettroniche, oggi piuttosto basso. Un
punto deve essere valutato con attenzione: la norma parla di "servizi di
certificazione delle firme elettroniche", senza aggiungere l'aggettivo
"qualificate". Non è (speriamo!) una svista. Infatti nell'ambito
delle electronic signatures previste dalla direttiva 1999/93/ ci sono
anche le "segnature" che non sono firme qualificate. Rientrano in
questa categoria, per esempio, i certificati digitali che sono alla base delle
transazioni telematiche "sicure". In questo settore una falsa
dichiarazione a un certificatore può essere il primo passo verso una truffa
telematica. Dunque, anche per questo la qualifica di reato è opportuna. Peccato
che, nel caos normativo che dovrebbe regolamentare le segnature elettroniche nel
nostro Paese, la fattispecie appena descritta non esista. Anzi, non esiste
nemmeno la segnatura elettronica prevista dalla direttiva come metodo di
validazione dei dati (art. 2, 1).
Questo significa che il giudice penale potrebbe incontrare qualche difficoltà
nell'interpretazione della nuova norma: un motivo in più per procedere, con la
massima urgenza, alla correzione delle disposizioni in materia di firme
elettroniche.
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