Le discussioni di questi giorni sull'efficacia probatoria del documento
informatico sono state sollevate dalla pubblicazione di un ricorso per decreto ingiuntivo che attribuisce a un
messaggio e-mail l'efficacia di una "prova scritta" ai sensi dell'art.
633 del codice di procedura civile.
Fermo restando il fatto che un avvocato ha il dovere di presentare al giudice
ogni possibile elemento a favore del suo assistito, l'attribuzione del valore di
prova scritta a un messaggio di posta elettronica (cui il tribunale di Cuneo
sembra aver dato seguito) non trova riscontro né nella realtà tecnologica
(vedi l'articolo di Corrado Giustozzi, né nel
dettato attuale delle norme.
Questa vicenda costituisce l'occasione per operare una ulteriore
ricostruzione degli effetti probatori del documento informatico, confermando
tutte le perplessità sulle scelte adottate dal nostro legislatore, più volte
evidenziate su queste pagine.
Proviamo quindi a misurare "sul campo" gli effetti delle disposizioni
ad oggi vigenti, sotto il profilo della efficacia probatoria e della valenza
formale del documento informatico.
Il nostro punto di riferimento è l'art. 10
del testo unico sulla documentazione amministrativa (brevemente TUDA), alla
luce delle modifiche ed integrazioni allo stesso apportate dal DLgs 10/02, poi
confermate dal DPR 137/03.
Partiamo dall'ipotesi di documento informatico sprovvisto di qualsiasi firma
o contrassegno digitale (ad esempio, una pura e semplice e-mail, nella quale
Tizio riconosce di dovere 1 euro a Caio). Concordo pienamente con quanto scritto
da Cammarata e Maccarone sul precedente numero di InterLex (Un messaggio e-mail non è prova scritta), in ordine
al fatto che, in tale ipotesi, non sia possibile tecnicamente, ancor prima che
giuridicamente, parlare di documento sottoscritto con firma leggera, non
essendovi alcun collegamento logico tra la password di accesso e quel singolo
specifico documento.
La fattispecie, pertanto, rientra nel disposto del primo comma dell'art. 10, e
detto documento ha "l'efficacia probatoria prevista dall'art. 2712 del
codice civile, riguardo ai fatti ed alle cose rappresentate".
Se dunque Caio vuole azionare in giudizio il suo diritto, il documento che ne
consacra l'esistenza fa piena prova del fatto ivi rappresentato (il credito di 1
euro) solo, e soltanto, se Tizio non lo disconosce. L'efficacia probatoria del
mero documento informatico quindi è estremamente debole, essendo subordinata
alla condotta processuale del debitore.
Di contro, colui contro il quale sia prodotto un documento di tal fatta, ha
l'onere di disconoscerlo se vuole inibirne le potenzialità istruttorie: in
mancanza di disconoscimento, l'art. 10 comma 1 e il richiamato art. 2712 codice
civile, cui il giudice è tenuto a dare applicazione, riconnettono infatti alla
nostra e-mail la valenza di piena prova.
Diversa l'ipotesi in cui quello stesso riconoscimento di debito sia
sottoscritto con firma elettronica che definiremo "semplice" (comunque
non avanzata, non qualificata e/o "non digitale", stando alla
aberrante declaratoria dettata dall'art. 1
del DPR 137/03). L'esempio, difficile anche da immaginare vista la
farraginosità del testo normativo, potrebbe essere quello del documento
sottoscritto mediante utilizzazione di un dispositivo di firma "non
sicuro" o con una firma la cui chiave pubblica non sia certificata da un
certificatore qualificato.
Ora, in questo caso, il comma 2 dell'art. 10 prevede che "sul piano
probatorio il documento è liberamente valutabile dal giudice, tenuto conto
delle sue caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza". Tale dizione,
a mio parere, esclude l'applicabilità sia dell'art. 2712 codice civile (che,
come detto, fissa un vincolo a considerare provato il fatto in assenza di
disconoscimento), sia dell'art. 2702 codice civile, lasciando il giudice libero
di valutare l'attendibilità del documento sulla base dei misteriosissimi
criteri della "qualità e sicurezza". Dal punto di vista squisitamente
processuale, Tizio non ha cioè l'onere di contestare la veridicità del
documento per paralizzarne l'efficacia probatoria: anche in ipotesi di non
contestazione (qui la differenza rispetto al sistema disegnato dall'art. 2712 e
dall'art. 2702 codice civile), il giudice è infatti libero di acclarare la
inattendibilità del documento, avendo come unico limite quello di motivare come
e perché le caratteristiche oggettive dello stesso debbano considerarsi di
qualità e sicurezza tali da inficiarne la valenza probatoria.
Il problema si sposta, dunque, sull'immaginare come debba esser condotta, in
tale contesto, l'attività istruttoria. A stretto rigore, l'unico criterio che
il giudice è chiamato, e ha la facoltà di applicare, sono le
"caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza del documento".
Dizione questa talmente ampia da rimanere pesantemente esposta ad inevitabili
oscillazioni giurisprudenziali e rispetto alla quale la deduzione di prove è
difficile anche da ipotizzare. Ma non è questo il solo aspetto problematico:
c'è da chiedersi, infatti, se la fissazione di tali soli criteri escluda in
radice la operatività di altre norme. Mi riferisco in particolare alla
possibilità (per Tizio, ma soprattutto per Caio) di invocare la assunzione di
una prova testimoniale circa la sussistenza del diritto di credito documentato
nella nostra e-mail.
Fermo il principio di cui all'art. 2721 codice civile (secondo il quale la
prova per testi è inammissibile per le obbligazioni di valore superiore a L.
5.000) , l'art. 2724 comma 1 numero 1 codice civile, in deroga al 2721, consente
l'ammissione della prova per testi "quando vi è un principio di prova per
iscritto costituito da qualsiasi scritto proveniente dalla persona contro la
quale è diretta la domanda". Il quesito è allora il seguente: se è vero
che l'art. 10 comma 2 assegna (come si sta per sottolineare) il requisito della
forma scritta al documento sottoscritto con firma elettronica
"semplice", possono le parti invocare l'ammissione di una prova orale
sulla base dell'art. 2724, comma 1 numero 1 codice civile ? A mio parere,
nonostante la infelicissima formulazione dell'art. 10 comma 2, decisamente sì,
non essendo possibile che una norma regolamentare come quella contenuta nel TUDA,
vada ad inibire una facoltà (e quindi implicitamente ad abrogare una norma)
prevista, in termini generali, dal codice civile.
Veniamo poi all'ipotesi in cui il riconoscimento di debito di Tizio sia
sottoscritto con firma digitale (o con altra tipo di firma elettronica avanzata
e la firma sia basata su un certificato qualificato e generata mediante un
dispositivo per la creazione della firma sicura, sempre per usare le farraginose
espressioni delle norme).
In questo caso, a norma dell'art. 10 comma 3, il documento informatico "fa
piena prova fino a querela di falso della provenienza delle dichiarazioni da chi
l'ha sottoscritto". Questa formulazione, che secondo alcuni commentatori
consacra l'ingresso nel nostro ordinamento di un istituto completamente nuovo,
quello della cosiddetta scrittura privata informatica, costituisce il culmine di
quella sciagurata evoluzione interpretativa relativa all'art. 10 del TUDA (che
si limitava ad un generico riferimento all'art. 2702 codice civile,
esegeticamente distorto in molte analisi), poi rifluita nel DLgs 10/02 e da
ultimo confermata dal DPR 137/03.
In virtù di tale disposizione, Tizio non potrebbe limitarsi a disconoscere
la propria sottoscrizione (come accade nel mondo fisico, a norma del combinato
disposto degli art. 2702 del codice civile e 214 del codice di procedura
civile), ma la sua possibilità di contestare la veridicità del documento
sarebbe subordinata alla ben più pesante proposizione (in via principale o
incidentale) di un giudizio inteso all'accertamento del falso.
Caio, cioè, avrebbe in mano un documento cui l'ordinamento riconnette il
massimo della efficacia probatoria: anche in ipotesi di mero disconoscimento
della sottoscrizione, egli non sarebbe tenuto (come accade per le scritture
private cartacee) a promuovere una istanza di verificazione, assumendo a proprio
carico gli oneri probatori relativi all'accertamento della veridicità della
scrittura, ma al contrario (come accade per le scritture private autenticate)
gli sarebbe sufficiente far constatare la mancata proposizione della querela di
falso per far valere la piena efficacia probatoria del documento.
Se poi Tizio provvedesse a promuovere la querela di falso, incomberebbe sullo
stesso l'onere di dimostrare che la sottoscrizione è falsa, prova certamente
molto difficile da dare in ipotesi di documento sottoscritto con firma digitale
(a meno che Tizio non riesca a dimostrare, ad esempio, che il suo dispositivo di
firma sia stato indebitamente utilizzato da un terzo - magari dal suo
commercialista, per stare ai recenti fatti di cronaca segnalati da InterLex
- spezzando così il filo che lo lega a quella dichiarazione).
Questo l'attuale panorama per quanto attiene alla efficacia probatoria del
documento informatico.
Diverso è il discorso per quanto attiene al problema della assimilabilità
del documento informatico allo scritto, sotto il profilo del rispetto dei
requisiti di forma richiesti dall'ordinamento a volte come elemento di validità
di determinati atti - la cosiddetta forma ad substantiam - e a volte come
unico strumento di prova - la cosiddetta forma ad probationem.
Facciamo l'esempio della accettazione della proposta di apertura di un conto
corrente on line (contratto a forma scritta vincolata, e cioè nullo se non
redatto per iscritto).
Bene, a norma dell'art. 10 comma 2 "il documento informatico sottoscritto
con firma elettronica soddisfa il requisito della forma scritta". Questo
significa che anche il modulo di adesione sottoscritto on line con firma
elettronica "semplice", deve considerarsi pienamente valido ai fini
del perfezionamento del contratto. Si tratta di una scelta normativa
assolutamente in controtendenza rispetto alla attenzione riposta dal legislatore
con riguardo a quelle particolari tipologie di atti, per le quali la previsione
della forma come requisito di validità costituisce una sorta di presidio di
garanzia e di warning per i sottoscrittori. Asimmetria sistemica che
risulterebbe ancora più vistosa, ove fosse sostenibile (e non lo è) che anche
una semplice e-mail debba esser assimilata al documento informatico sottoscritto
con firma elettronica debole, e quindi, a tutti gli effetti, scritta.
Ma vi è di più: la norma è anche redatta tecnicamente in modo
discutibilissimo, atteso che, a stretto rigore, in assenza di una disposizione
di uguale contenuto per i documenti sottoscritti con firma digitale (o con firma
elettronica avanzata e/o qualificata), si potrebbe arrivare all'assurdo effetto
di non poter considerare gli stessi "scritti" ai fini della validità,
con il paradossale risultato che l'utilizzo di uno strumento più sicuro (la
firma digitale) produrrebbe effetti meno "pregiati", e certamente meno
utili, rispetto ad altro strumento (la mera firma elettronica) caratterizzato da
un inferiore livello di affidabilità. Effetto questo tanto aberrante, da dover
esser neutralizzato con una esegesi evolutiva di tali malcerti istituti.
In realtà tutte le problematiche evidenziate in materia di efficacia
probatoria e di forma del documento informatico sottoscritto elettronicamente
nascono da una sorta di vizio "acquisito" della nostra normativa,
costituito dal maldestro tentativo di allineare le disposizioni dettate dal DPR
513/97, al nuovo quadro introdotto a livello europeo dalla direttiva 1999/93/CE.
Da qui le distorsioni del DLgs 10/02 prima, e del DPR 137/03 poi, tante e tali
da ingenerare nella operatività quotidiana aberrazioni interpretative come
quella nella quale sembra esser incappato il tribunale di Cuneo.
Nei prossimi mesi il Governo è chiamato a metter di nuovo mano alla materia,
emanando il regolamento previsto dalla legge di semplificazione 229/03. In linea
con quanto accaduto finora, pertanto, si rimanda ad uno strumento regolamentare
il compito di riordinare un corpus di norme che, come ho sottolineato più
volte, per esser quantomeno istituzionalmente corrette (a prescindere dalle
scelte che alle stesse presiedono), dovrebbero invece assumere la forma di una
legge ordinaria, l'unica che consente di derogare a principi del nostro
ordinamento consacrati in discipline di rango primario, finora indebitamente
contraddetti (con i descritti, caotici risultati) da norme emanate in marchiana
violazione dei confini delineati dal legislatore delegante. Con i conseguenti,
seri dubbi di incostituzionalità.
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