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Firma digitale

Gli effetti probatori del documento informatico

di Paolo Ricchiuto* - 05.02.04

 
Le discussioni di questi giorni sull'efficacia probatoria del documento informatico sono state sollevate dalla pubblicazione di un ricorso per decreto ingiuntivo che attribuisce a un messaggio e-mail l'efficacia di una "prova scritta" ai sensi dell'art. 633 del codice di procedura civile.
Fermo restando il fatto che un avvocato ha il dovere di presentare al giudice ogni possibile elemento a favore del suo assistito, l'attribuzione del valore di prova scritta a un messaggio di posta elettronica (cui il tribunale di Cuneo sembra aver dato seguito) non trova riscontro né nella realtà tecnologica (vedi l'articolo di Corrado Giustozzi, né nel dettato attuale delle norme.

Questa vicenda costituisce l'occasione per operare una ulteriore ricostruzione degli effetti probatori del documento informatico, confermando tutte le perplessità sulle scelte adottate dal nostro legislatore, più volte evidenziate su queste pagine.
Proviamo quindi a misurare "sul campo" gli effetti delle disposizioni ad oggi vigenti, sotto il profilo della efficacia probatoria e della valenza formale del documento informatico.
Il nostro punto di riferimento è l'art. 10 del testo unico sulla documentazione amministrativa (brevemente TUDA), alla luce delle modifiche ed integrazioni allo stesso apportate dal DLgs 10/02, poi confermate dal DPR 137/03.

Partiamo dall'ipotesi di documento informatico sprovvisto di qualsiasi firma o contrassegno digitale (ad esempio, una pura e semplice e-mail, nella quale Tizio riconosce di dovere 1 euro a Caio). Concordo pienamente con quanto scritto da Cammarata e Maccarone sul precedente numero di InterLex (Un messaggio e-mail non è prova scritta), in ordine al fatto che, in tale ipotesi, non sia possibile tecnicamente, ancor prima che giuridicamente, parlare di documento sottoscritto con firma leggera, non essendovi alcun collegamento logico tra la password di accesso e quel singolo specifico documento.
La fattispecie, pertanto, rientra nel disposto del primo comma dell'art. 10, e detto documento ha "l'efficacia probatoria prevista dall'art. 2712 del codice civile, riguardo ai fatti ed alle cose rappresentate".

Se dunque Caio vuole azionare in giudizio il suo diritto, il documento che ne consacra l'esistenza fa piena prova del fatto ivi rappresentato (il credito di 1 euro) solo, e soltanto, se Tizio non lo disconosce. L'efficacia probatoria del mero documento informatico quindi è estremamente debole, essendo subordinata alla condotta processuale del debitore.
Di contro, colui contro il quale sia prodotto un documento di tal fatta, ha l'onere di disconoscerlo se vuole inibirne le potenzialità istruttorie: in mancanza di disconoscimento, l'art. 10 comma 1 e il richiamato art. 2712 codice civile, cui il giudice è tenuto a dare applicazione, riconnettono infatti alla nostra e-mail la valenza di piena prova.

Diversa l'ipotesi in cui quello stesso riconoscimento di debito sia sottoscritto con firma elettronica che definiremo "semplice" (comunque non avanzata, non qualificata e/o "non digitale", stando alla aberrante declaratoria dettata dall'art. 1 del DPR 137/03). L'esempio, difficile anche da immaginare vista la farraginosità del testo normativo, potrebbe essere quello del documento sottoscritto mediante utilizzazione di un dispositivo di firma "non sicuro" o con una firma la cui chiave pubblica non sia certificata da un certificatore qualificato.

Ora, in questo caso, il comma 2 dell'art. 10 prevede che "sul piano probatorio il documento è liberamente valutabile dal giudice, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza". Tale dizione, a mio parere, esclude l'applicabilità sia dell'art. 2712 codice civile (che, come detto, fissa un vincolo a considerare provato il fatto in assenza di disconoscimento), sia dell'art. 2702 codice civile, lasciando il giudice libero di valutare l'attendibilità del documento sulla base dei misteriosissimi criteri della "qualità e sicurezza". Dal punto di vista squisitamente processuale, Tizio non ha cioè l'onere di contestare la veridicità del documento per paralizzarne l'efficacia probatoria: anche in ipotesi di non contestazione (qui la differenza rispetto al sistema disegnato dall'art. 2712 e dall'art. 2702 codice civile), il giudice è infatti libero di acclarare la inattendibilità del documento, avendo come unico limite quello di motivare come e perché le caratteristiche oggettive dello stesso debbano considerarsi di qualità e sicurezza tali da inficiarne la valenza probatoria.

Il problema si sposta, dunque, sull'immaginare come debba esser condotta, in tale contesto, l'attività istruttoria. A stretto rigore, l'unico criterio che il giudice è chiamato, e ha la facoltà di applicare, sono le "caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza del documento". Dizione questa talmente ampia da rimanere pesantemente esposta ad inevitabili oscillazioni giurisprudenziali e rispetto alla quale la deduzione di prove è difficile anche da ipotizzare. Ma non è questo il solo aspetto problematico: c'è da chiedersi, infatti, se la fissazione di tali soli criteri escluda in radice la operatività di altre norme. Mi riferisco in particolare alla possibilità (per Tizio, ma soprattutto per Caio) di invocare la assunzione di una prova testimoniale circa la sussistenza del diritto di credito documentato nella nostra e-mail.

Fermo il principio di cui all'art. 2721 codice civile (secondo il quale la prova per testi è inammissibile per le obbligazioni di valore superiore a L. 5.000) , l'art. 2724 comma 1 numero 1 codice civile, in deroga al 2721, consente l'ammissione della prova per testi "quando vi è un principio di prova per iscritto costituito da qualsiasi scritto proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda". Il quesito è allora il seguente: se è vero che l'art. 10 comma 2 assegna (come si sta per sottolineare) il requisito della forma scritta al documento sottoscritto con firma elettronica "semplice", possono le parti invocare l'ammissione di una prova orale sulla base dell'art. 2724, comma 1 numero 1 codice civile ? A mio parere, nonostante la infelicissima formulazione dell'art. 10 comma 2, decisamente sì, non essendo possibile che una norma regolamentare come quella contenuta nel TUDA, vada ad inibire una facoltà (e quindi implicitamente ad abrogare una norma) prevista, in termini generali, dal codice civile.

Veniamo poi all'ipotesi in cui il riconoscimento di debito di Tizio sia sottoscritto con firma digitale (o con altra tipo di firma elettronica avanzata e la firma sia basata su un certificato qualificato e generata mediante un dispositivo per la creazione della firma sicura, sempre per usare le farraginose espressioni delle norme).
In questo caso, a norma dell'art. 10 comma 3, il documento informatico "fa piena prova fino a querela di falso della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritto". Questa formulazione, che secondo alcuni commentatori consacra l'ingresso nel nostro ordinamento di un istituto completamente nuovo, quello della cosiddetta scrittura privata informatica, costituisce il culmine di quella sciagurata evoluzione interpretativa relativa all'art. 10 del TUDA (che si limitava ad un generico riferimento all'art. 2702 codice civile, esegeticamente distorto in molte analisi), poi rifluita nel DLgs 10/02 e da ultimo confermata dal DPR 137/03.

In virtù di tale disposizione, Tizio non potrebbe limitarsi a disconoscere la propria sottoscrizione (come accade nel mondo fisico, a norma del combinato disposto degli art. 2702 del codice civile e 214 del codice di procedura civile), ma la sua possibilità di contestare la veridicità del documento sarebbe subordinata alla ben più pesante proposizione (in via principale o incidentale) di un giudizio inteso all'accertamento del falso.
Caio, cioè, avrebbe in mano un documento cui l'ordinamento riconnette il massimo della efficacia probatoria: anche in ipotesi di mero disconoscimento della sottoscrizione, egli non sarebbe tenuto (come accade per le scritture private cartacee) a promuovere una istanza di verificazione, assumendo a proprio carico gli oneri probatori relativi all'accertamento della veridicità della scrittura, ma al contrario (come accade per le scritture private autenticate) gli sarebbe sufficiente far constatare la mancata proposizione della querela di falso per far valere la piena efficacia probatoria del documento.

Se poi Tizio provvedesse a promuovere la querela di falso, incomberebbe sullo stesso l'onere di dimostrare che la sottoscrizione è falsa, prova certamente molto difficile da dare in ipotesi di documento sottoscritto con firma digitale (a meno che Tizio non riesca a dimostrare, ad esempio, che il suo dispositivo di firma sia stato indebitamente utilizzato da un terzo - magari dal suo commercialista, per stare ai recenti fatti di cronaca segnalati da InterLex - spezzando così il filo che lo lega a quella dichiarazione).
Questo l'attuale panorama per quanto attiene alla efficacia probatoria del documento informatico.

Diverso è il discorso per quanto attiene al problema della assimilabilità del documento informatico allo scritto, sotto il profilo del rispetto dei requisiti di forma richiesti dall'ordinamento a volte come elemento di validità di determinati atti - la cosiddetta forma ad substantiam - e a volte come unico strumento di prova - la cosiddetta forma ad probationem.

Facciamo l'esempio della accettazione della proposta di apertura di un conto corrente on line (contratto a forma scritta vincolata, e cioè nullo se non redatto per iscritto).
Bene, a norma dell'art. 10 comma 2 "il documento informatico sottoscritto con firma elettronica soddisfa il requisito della forma scritta". Questo significa che anche il modulo di adesione sottoscritto on line con firma elettronica "semplice", deve considerarsi pienamente valido ai fini del perfezionamento del contratto. Si tratta di una scelta normativa assolutamente in controtendenza rispetto alla attenzione riposta dal legislatore con riguardo a quelle particolari tipologie di atti, per le quali la previsione della forma come requisito di validità costituisce una sorta di presidio di garanzia e di warning per i sottoscrittori. Asimmetria sistemica che risulterebbe ancora più vistosa, ove fosse sostenibile (e non lo è) che anche una semplice e-mail debba esser assimilata al documento informatico sottoscritto con firma elettronica debole, e quindi, a tutti gli effetti, scritta.

Ma vi è di più: la norma è anche redatta tecnicamente in modo discutibilissimo, atteso che, a stretto rigore, in assenza di una disposizione di uguale contenuto per i documenti sottoscritti con firma digitale (o con firma elettronica avanzata e/o qualificata), si potrebbe arrivare all'assurdo effetto di non poter considerare gli stessi "scritti" ai fini della validità, con il paradossale risultato che l'utilizzo di uno strumento più sicuro (la firma digitale) produrrebbe effetti meno "pregiati", e certamente meno utili, rispetto ad altro strumento (la mera firma elettronica) caratterizzato da un inferiore livello di affidabilità. Effetto questo tanto aberrante, da dover esser neutralizzato con una esegesi evolutiva di tali malcerti istituti.

In realtà tutte le problematiche evidenziate in materia di efficacia probatoria e di forma del documento informatico sottoscritto elettronicamente nascono da una sorta di vizio "acquisito" della nostra normativa, costituito dal maldestro tentativo di allineare le disposizioni dettate dal DPR 513/97, al nuovo quadro introdotto a livello europeo dalla direttiva 1999/93/CE.
Da qui le distorsioni del DLgs 10/02 prima, e del DPR 137/03 poi, tante e tali da ingenerare nella operatività quotidiana aberrazioni interpretative come quella nella quale sembra esser incappato il tribunale di Cuneo.

Nei prossimi mesi il Governo è chiamato a metter di nuovo mano alla materia, emanando il regolamento previsto dalla legge di semplificazione 229/03. In linea con quanto accaduto finora, pertanto, si rimanda ad uno strumento regolamentare il compito di riordinare un corpus di norme che, come ho sottolineato più volte, per esser quantomeno istituzionalmente corrette (a prescindere dalle scelte che alle stesse presiedono), dovrebbero invece assumere la forma di una legge ordinaria, l'unica che consente di derogare a principi del nostro ordinamento consacrati in discipline di rango primario, finora indebitamente contraddetti (con i descritti, caotici risultati) da norme emanate in marchiana violazione dei confini delineati dal legislatore delegante. Con i conseguenti, seri dubbi di incostituzionalità.
 

 * Avvocato in Roma

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