La revoca del certificato: un
antidoto possibile
di Paolo Ricchiuto* - 02.04.03
Viviamo in Italia, e sappiamo (forse più di altri) che ogni sistema
normativo, nel momento in cui passa il vaglio della realtà operativa, è
esposto a storture pratiche tali da vanificare anche i migliori propositi del
migliore dei legislatori. L’unico antidoto consiste nella ricognizione di
strumenti di tutela tali da poter debellare il virus della approssimazione
esecutiva, e garantire la tenuta formale e sostanziale dell’intero apparato.
Le notizie pubblicate da InterLex relativamente al problema della
identificazione con certezza (Ha la firma digitale, ma non
lo sa...), da un lato confermano come le pericolose lassità legislative
denunciate da tempo (vedi Norme antiriciclaggio
e identificazione del contraente e Ancora sulla
"certezza dell'identificazione" ) prestino il fianco alle più
assurde manipolazioni; dall’altro stimolano una riflessione circa i possibili
rimedi che il complesso panorama normativo e regolamentare mette a disposizione
per auto-difendersi dalle distorsioni che emergono nella pratica.
Rivediamo, per comodità di consultazione, il fatto (che utilizzeremo come
punto di riferimento per la presente analisi, senza entrare in nessun modo, ed
ovviamente, nel merito della veridicità o meno degli accadimenti che ne
costituiscono il substrato): un commercialista, operando come incaricato dell’ufficio
di registrazione di un certificatore, fa firmare ad un suo cliente il modulo per
la richiesta di certificazione delle chiavi, non lo informa sulle reali
caratteristiche dello strumento, mantiene presso di sé il dispositivo di firma
ed il relativo PIN.
La prima domanda da porsi è se sia legittimo l’utilizzo di un cosiddetto
"incaricato della registrazione" anche ai fini dell'identificazione
del richiedente. Non esistendo alcun punto di riferimento nel TU 445/00 e nelle
regole tecniche (che, improvvidamente, prescrivono soltanto la identificazione
"certa", al pari del recente schema
di DPR approvato dal Consiglio dei ministri il 31.01.03), e partendo dall’assunto
che l’AIPA, in sede di iscrizione al registro pubblico dei certificatori,
abbia valutato sufficienti le procedure di identificazione previste nel manuale
operativo dall’aspirante certificatore, non sembra possano esistere dubbi
sulla legittimità formale di tale iter.
Stesso risultato, se alla vicenda si guarda dal punto di prospettiva dettato
dall’art. 18 delle regole tecniche: ed
infatti l’AIPA può ordinare la cancellazione del certificatore dall’elenco
pubblico soltanto qualora siano "venuti meno" uno o più requisiti tra
quelli indicati nell’art. 16:
considerato come, nel caso di specie, non è in questione la persistenza o meno
di tali requisiti, bensì il modo attraverso il quale le procedure previste da
uno dei medesimi (il manuale operativo) sono state attuate, allora emerge chiaro
come sia difficilmente configurabile un provvedimento così tranchant
quale la cancellazione del certificatore dal registro ad opera del Dipartimento.
Ma al di là di ciò, il successivo quesito al quale tentare di dar risposta è
il seguente: è possibile individuare negli istituti della revoca e/o della
sospensione dei certificati, gli strumenti attraverso i quali curare le
patologie operative del sistema?
Proviamo a rispondere, circoscrivendo innanzitutto i principi violati dalla
anomala operatività in commento. A norma dell’art. 24 delle regole tecniche il
certificatore deve informare espressamente il richiedente la registrazione
riguardo agli obblighi da quest’ultimo assunti in merito alla protezione della
segretezza della chiave privata ed alla conservazione ed all’uso dei
dispostitivi di firma. Recita poi l’art. 29-bis TU 445/00, introdotto dal
recente schema di DPR approvato il 31.01.03: il certificatore deve: o)
predisporre su mezzi di comunicazione durevoli tutte le informazioni utili ai
soggetti che richiedono il servizio di certificazione, tra cui in particolare
gli esatti termini e condizioni relative all’uso del certificato, compresa
ogni limitazione dell’uso, l’esistenza di un sistema di accreditamento
facoltativo e le procedure di reclamo e di risoluzione delle controversie.
Al di là della formulazione sintattica delle norme, è evidente che l’obbligo
di informazione debba concretarsi, prima di ogni altra cosa, nella spiegazione
circa la natura dello strumento: in altri termini, il commercialista non può
certo limitarsi a dire che gli serve una firmetta su un modulo di richiesta, ad
esempio per poter poi inviare telematicamente i bilanci al registro delle
imprese, ma deve rendere edotto il suo cliente del fatto che, chiedendo la
certificazione delle chiavi, lo stesso entra in possesso della prerogativa di
firmare digitalmente qualsiasi atto, con effetti equiparabili alla firma
autografa (anzi, secondo la incredibile formulazione del DLgs 10/02, con effetti
ancora più forti).
Pur condividendo le riflessioni operate da E. Maccarone su queste pagine
circa la necessità di un attento ruolo attivo anche da parte dell’utenza (Il "baco" di PosteCom e le funzioni di vigilanza)
, non sembra proprio che alcuna censura possa esser mossa,in questo caso, ad un
soggetto tenuto completamente all’oscuro non solo delle conseguenze, ma anche
della funzione e della natura stessa della firma digitale.
Ma non basta: in virtù dell’art. 28
lett. g) TU 445/00 (anche nel testo dettato dallo schema di DPR 31.01.03), il
certificatore non può rendersi depositario di chiavi private (sul punto,
cfr. anche art. 8 delle regole tecniche).
Se quindi il commercialista (che, nel rapporto con l’utente, opera come se
fosse il certificatore) trattiene presso di sé il dispositivo di firma, non
premurandosi di consegnarlo all’effettivo titolare, opera in marchiana
violazione di tale principio.
Ora, al di là dei profili di responsabilità del commercialista nei
confronti del certificatore (per violazione degli obblighi previsti nella
convenzione che lo abilita alla registrazione degli utenti), e tenendo da parte
i profili squisitamente risarcitori connessi al rapporto tra il malcapitato
utente ed il certificatore, concentriamo l’attenzione sugli istituti della
revoca e/o della sospensione dei certificati.
Recita l’art. 28 lett. h) del TU (con disposizione confermata integralmente
dallo schema di DPR) : il certificatore è tenuto a procedere tempestivamente
alla revoca od alla sospensione del certificato in caso di richiesta da parte
del titolare o del terzo dal quale derivino i poteri di quest’ultimo, di
perdita del possesso della chiave, di provvedimento dell’autorità, di
acquisizione della conoscenza di cause limitative della capacità del titolare,
di sospetti abusi o falsificazioni.
Per come è formulata la norma, pertanto, la revoca (o la sospensione) del
certificato può esser disposta dal certificatore motu proprio (ove
sussistano determinate condizioni), ovvero su ordine dell’autorità, ovvero su
istanza del titolare.
Partiamo da quest’ultimo caso, per evidenziare la (ennesima) asimmetria tra
il TU e le regole tecniche. A norma degli artt. 31 e 35
la richiesta del titolare deve essere redatta per iscritto, specificando la
motivazione della revoca (o della sospensione) e la sua decorrenza. Da un
lato, quindi, secondo il TU il titolare della chiave sembra abilitato a
richiedere la revoca sempre e comunque (anche in assenza di motivazioni
specifiche); dall’altro, le regole tecniche sembrano subordinare la
esperibilità della richiesta di revoca alla sussistenza di una motivazione.
Si tratta di una formulazione quantomeno ambigua: cosa accade, infatti, se
perviene al certificatore una richiesta immotivata? Per aggirare il problema, il
nostro inconsapevole titolare della firma farà bene ad inviare la propria
richiesta di revoca, adducendo esplicitamente, come motivo, il fatto che il
certificatore (non conta se per il tramite del commercialista suo mandatario) ha
violato tutti i possibili obblighi connessi alla corretta gestione della fase
della registrazione.
Primo rimedio, dunque, la revoca del certificato su istanza del titolare.
Ma proviamo a guardare la questione sotto un diverso punto di vista: cosa
può fare per riparare la situazione il certificatore che acclari la veridicità
di fatti quali quelli in commento? Secondo il citato disposto dell’art. 28
lett. h) - e secondo l’art. 30 delle
regole tecniche - il certificatore può provvedere alla revoca del certificato,
adducendo motivi specifici. Tra questi motivi, è espressamente previsto il sospetto
di abusi o falsificazioni. Sospetto, non già certezza! Di tal che,
legittimamente (e forse opportunamente) il certificatore che si fosse avveduto
delle descritte anomalie procedurali, potrebbe disporre la revoca di tutti i
certificati emessi per il tramite del commercialista suo mandatario, sussistendo
quantomeno il fondato sospetto di un abuso.
È una strada che, vista dall’esterno, appare certamente consigliabile,
anche se - è inutile negarlo - percorrendo la stessa il certificatore andrebbe
incontro ad una sorta di riconoscimento di responsabilità, tanto intriso di
coraggio quanto gravido di pericoli (anche semplicemente in termini di impatto
sul mercato e di perdita di posizione nei confronti dei competitor).
Esiste poi un’ultima possibilità: che alla revoca il certificatore sia
costretto a provvedere, ex art. 28 TU, per "provvedimento della
autorità". Ora c’è da chiedersi: a cosa si riferisce la lett. h)
parlando genericamente di autorità? Si tratta esclusivamente dell’autorità
giudiziaria? Oppure la elasticità del concetto (che non si premura di fare
riferimento, come accade di solito, alla "pubblica autorità") fa sì
che nel medesimo possa rientrare anche un organo come l’AIPA o il Dipartimento
per l’innovazione e le tecnologie? La domanda non è peregrina: basti
considerare il disposto dell’art. 4 DLgs
10/02 (confermato integralmente dallo schema di DPR) che espressamente rimette
al Dipartimento il compito di "vigilanza e controllo nel settore".
In cosa si concretizza tale controllo? Posto che il Dipartimento, una volta
acclarata una situazione quale quella in commento, non può - a parere di chi
scrive - cancellare il certificatore dal registro pubblico per i motivi sopra
riportati, lo stesso DIT può adottare un provvedimento autoritativo di revoca
(e/o sospensione) dei certificati che siano stati emessi in dispregio della
legge, dei regolamenti e dei manuali operativi? A parere di chi scrive,
decisamente sì: non si vede, altrimenti, a cosa mai potrebbe servire quel
compito di vigilanza rimesso al DIT, se neanche rispetto ad una situazione tanto
assurda come quella che esaminiamo, lo stesso non abbia gli strumenti per poter
intervenire fattivamente.
Concludendo: da quanto è emerso, sembra proprio che la revoca del certificato
possa svolgere il ruolo di un vero e proprio anticorpo contro le storture
pratiche del sistema.
Ma forse esiste ancora il modo per evitare di arrivare a tanto: tutti i
soggetti interessati possono infatti, congiuntamente, esaminare e risolvere i
problemi che, inevitabilmente, vanno emergendo in questa lunghissima prima fase
di start-up.
La tentazione che bisogna contrastare, è quella di chiudere gli occhi. Questo
sì, porterebbe tutto il sistema fuori dal binario, provocando l’avvio di
contenziosi che non farebbero altro che disorientare oltremodo gli aspiranti o
potenziali utenti, con l’unica conseguenza di lasciare al palo la rivoluzione
che la firma digitale può (ne siamo ancora, incrollabilmente convinti in molti)
portare con sé.
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