A seguito della pubblicazione del mio articolo Norme
antiriciclaggio e identificazione del contraente, e dei rilievi mossi da E.
Maccarone (Che significa identificare con certezza?),
ritengo opportune alcune precisazioni. Ciò da un lato, per meglio esplicitare
le già evidenziate perplessità sul concetto di "certezza della
identificazione" introdotto dall'art.
28 del testo unico sulla documentazione amministrativa - vecchio art. 9
DPR 513/97); dall'altro, per prospettare le motivazioni che, a parere di chi
scrive, inibiscono l'applicazione, anche de relato, dei principi
fissati dalla legge notarile.
Non c'è dubbio sul fatto che il documento al quale sia associata la firma
digitale, acquisisca la dignità di documento informatico e la conseguente
efficacia della scrittura privata ai sensi dell'art. 2702 c.c. (art.
10 TU)
Questo significa che, al pari di qualsiasi altra scrittura privata non
autenticata (o non riconosciuta), anche il documento informatico è soggetto al
rischio del disconoscimento di firma da parte del sottoscrittore.
Concordo pienamente quindi (e non potrebbe essere altrimenti), sul fatto che
l'apposizione della firma digitale non consenta di affermare che "il
documento sia stato formato e sottoscritto personalmente dal titolare della
firma".
Coerentemente con questo impianto, la identificazione operata dall'ente a ciò
preposto, non potrebbe mai considerarsi esaustiva ai fini dell'accertamento
della identità del soggetto che ha sottoscritto il documento informatico: ai
certificatori, infatti, non viene dato alcun potere che sia anche parzialmente
assimilabile a quello del notaio, o di altro pubblico ufficiale (non avrebbe
senso, altrimenti ed ovviamente, l'art. 24
TU sulla firma digitale autenticata, né sarebbe comprensibile il disposto dell'art.
10).
Bene, se così è, l'utilizzazione di norme che presiedono all'attività
svolta da un ufficiale pubblico, e la prospettata ipotesi di
"importare" nel mondo degli enti certificatori i principi e le regole
che caratterizzano il ruolo di un notaio, appare quantomeno contraddittorio.
Mi spiego meglio: l'art. 49 della legge notarile prevede che Il Notaio
deve essere certo dell'identità personale delle parti e può raggiungere tale
certezza, anche al momento della attestazione, valutando tutti gli elementi atti
a formare il suo convincimento. In caso contrario, il notaio può avvalersi di
due fidefacienti da lui conosciuti, che possono essere anche i testimoni.
Ciò significa che, come giustamente evidenziato da E. Maccarone, secondo la
legge "ciò che rileva non è il processo dell'accertamento dell'identità,
ma il fatto di aver raggiunto tale certezza con forza tale da poterla
trasmettere e certificare ai terzi".
Ora questo principio opera perché la norma è destinata a un pubblico
ufficiale, di tal che, attesa la pubblica fede che ne deve accompagnare l'attività,
non sono prescritti mezzi specifici per raggiungere la "certezza della
identità", rilevando esclusivamente che tale certezza sia dal medesimo
certificata.
Stesso meccanismo, a sommesso avviso di chi scrive, non può in nessun modo
esser replicato per l'attività di identificazione, intesa come preliminare
adempimento che l'ente certificatore deve operare prima di validare la firma
digitale.
Detti enti sono società private (abilitate esclusivamente alla certificazione
della firma digitale), e, al di là di ciò, il procedimento ha tutt'altre
finalità e conseguenze giuridico-formali.
Esempio: se un notaio autentica la sottoscrizione di un soggetto in sede di
redazione di un atto ( o addirittura lo redige nelle forme dell'atto
pubblico), il sistema normativo connette a detta attività una conseguenza
scardinabile esclusivamente con la querela di falso. Non potranno cioè esser
sollevate (se non a norma dell'art. 221 c.p.c.) contestazioni circa la
provenienza della manifestazione di volontà da parte del soggetto che lo ha
posto in essere.
L'attività di identificazione che opera il notaio, pertanto, si riflette
sulla fede privilegiata dell'atto stesso.
Al contrario: se un contratto viene stipulato mediante apposizione di una
firma digitale, lo stesso avrà la mera efficacia della scrittura privata, ex
art. 2702 c.c. La conseguenza, sta nel fatto che la parte contro la quale la
scrittura viene prodotta in giudizio, potrà sempre disconoscere l'avvenuta
sottoscrizione. Ne consegue, che la "identificazione certa" operata
dall'ente certificatore, in presenza di una contestazione, non potrà condurre
ai medesimi approdi tecnico formali della identificazione posta in essere dal
pubblico ufficiale.
Il divario.ontologico tra l'una e l'altra fattispecie appare evidente, ed
inibisce, a parere di chi scrive, la possibilità di interpretare la normativa
sul documento informatico, ipotizzando che la "identificazione certa"
dell'ente certificatore, possa in qualsiasi modo essere assimilata alla
"identificazione certa" operata dal notaio.
Se così è, si comprenderà il motivo per il quale parlavo nel mio articolo,
e continuo a parlare, di un "buco" normativo, laddove il legislatore
ha fissato il principio della necessaria identificazione da parte del
certificatore, senza in alcun modo prevedere quali siano gli adempimenti che
quest'ultimo deve porre in essere per assolvere correttamente e "con
certezza" al suo dovere.
Se il concetto di mera certezza (sganciato dalle modalità con le quali viene
perseguita) ha un senso nella legge notarile, altrettanto non si può affermare
con riguardo all'attività di certificazione della firma digitale, per la
quale la mancanza di una disciplina specifica che individui le attività da
espletare per l'identificazione, apre un varco dalle conseguenze
potenzialmente gravissime.
Solo l'esperienza sul campo dirà quale sia , a livello ermeneutico, la
strada giusta da percorrere.
Quello che è certo, è che un intervento chiarificatore, come ho già
evidenziato, consentirebbe di risolvere alla radice il problema, consentendo
alla firma digitale di svolgere a pieno titolo (e senza affidarsi a esegesi
fondate su discutibili salti logici) il ruolo di volano dello sviluppo dell'e-business.