La direttiva relativa a un quadro unitario delle firme elettroniche è stata
pubblicata all'inizio del 2000, ma il dibattito che ne ha accompagnata la
preparazione è durato almeno due anni, con un vivace scontro tra la visione
giuridica continentale, più orientata a stabilire delle regole, e quella di
scuola britannica, molto più permissiva. Il fatto poi che la Direzione generale
competente era quella delle Comunicazioni ha fatto sì che alla fine hanno
prevalso considerazioni appartenenti più alla categoria della libertà delle
comunicazioni che a quella dell'autorevolezza dei documenti amministrativi.
La direttiva consiste in:
- un preambolo con ventotto "considerando";
- un insieme di norme distribuite in quindici articoli, i primi dieci dei quali
particolarmente importanti;
- quattro allegati.
Il numero dei "considerando" fornisce un'indicazione della
pluralità dei punti di vista e delle conseguenti soluzioni di compromesso.
Il documento enuncia essenzialmente dei "principi", esposti peraltro
in un tono molto generale, e prescinde volutamente da considerazioni di tipo
tecnologico, per le quali rimanda a decisioni di un apposito comitato, previsto
dall'articolo 91. In conseguenza di questa impostazione il contenuto delle norme
risulta in molti punti astratto e di difficile interpretazione.
Nella direttiva non vi è peraltro traccia alcuna dell'impostazione italiana,
caratterizzata da grande precisione normativa e tecnica, da un unico tipo di
firma e di certificatore, da un livello altissimo di sicurezza, da una diffusa
concretezza; vi si nota invece una specie di compiacimento nell'assegnare
dignità legale a vari tipi di firma, nel riconoscere più tipi di certificatori
e nel sorvolare sui problemi della sicurezza, proprio perché basati su
considerazioni tecniche, che, come già evidenziato, sono del tutto ignorate
dalla direttiva stessa. Lo spirito che prevale è quello del libero commercio e
della libera iniziativa in un mercato aperto, in base alla quale, ad esempio, si
danno poteri amplissimi a certe categorie di certificatori senza sottoporli a
nessuna forma di controllo preventivo, anzi vietandola espressamente.
L'estrema vaghezza tecnica spinge la direttiva a trattare in modo
approssimativo problemi fondamentali come quello dell'interoperabilità, dando
per scontato che sia tecnicamente possibile che, qualunque sia il certificatore,
ogni utente possa corrispondere con qualunque altro utente, sia nazionale sia
internazionale, il che è lungi dall'esser vero. Il legislatore europeo è stato
evidentemente supportato con poca autorevolezza dai tecnici, che hanno avvallato
un'impostazione della norma troppo generica.
Nel caso della versione italiana si sono inoltre aggiunti non pochi problemi
creati da errori di traduzione, solo in parte successivamente corretti.
A posteriori risulta purtroppo evidente che nella stesura della direttiva la
presenza dell'Italia, che peraltro era l'unico Paese europeo ad avere
un'esperienza sulla materia, non è stata significativa.
I problemi che sta creando il recepimento della direttiva nel nostro sistema
legislativo unitamente alla percezione che il suo valore aggiunto è
inapprezzabile, porta alla conclusione che di questa direttiva non si sentiva
proprio il bisogno.
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