La smart card della zia Clotilde
di Manlio Cammarata - 10.03.03
La questione del "baco di PosteCom" sta suscitando polemiche forse
ancora più accese di quello dei documenti con contenuti dinamici, emerso nello
scorso autunno e che riguardava la generalità delle applicazioni di firma
digitale "sicura". Sono arrivate molte e-mail su questo argomento, ma
preferisco passare dalle critiche ad argomenti più costruttivi. Anche perché
quello che c'era da dire è stato detto, il certificatore ha posto una
prima "toppa" e l'incidente in sé può considerarsi chiuso.
Ma non è chiuso, anzi si apre ora, un discorso più generale sulle
prospettive di sviluppo della firma digitale.
Ritorniamo sull'argomento dell'articolo del 4 marzo L'anno
zero del documento informatico: un periodo di "beta test" della
normativa e delle applicazioni era prevedibile e necessario. Sono emersi i primi
problemi, sia sul piano tecnico sia su quello normativo, è facilmente
prevedibile che altri ne emergeranno, ma l'importante è trarne le necessarie
conseguenze e farne tesoro per il futuro.
C'è un elemento comune che caratterizza i diversi "incidenti" che si
sono verificati fino a oggi. E considero "incidenti" anche le
complicazioni e gli errori giuridici del decreto di recepimento della direttiva
europea sulle firme "elettroniche" e le inevitabili conseguenze sul
regolamento approvato dal Governo il 31 gennaio scorso.
L'elemento comune è l'insufficiente dialogo tra il dominio della tecnologia
e quello del diritto. I tecnici vanno avanti per la loro strada, interpretando
"a orecchio" la normativa o ignorandola del tutto, i giuristi fanno
altrettanto con la tecnologia. Naturalmente c'è qualche eccezione, ma serve
solo, come sempre, a confermare la regola.
Ma per scrivere le norme è necessario conoscere i presupposti tecnologici, i
punti di forza e i limiti della materia che si va a regolare. Per esempio, non
si può affermare, come fa la direttiva, che la firma digitale (o elettronica
avanzata che dir si voglia) deve "essere collegata ai dati cui si riferisce
in modo da consentire l'identificazione di ogni successiva modifica di detti
dati", per il semplice motivo che questa possibilità non esiste sul piano
tecnico.
La conseguenza degli errori della direttiva si è riversata sulla normativa
nazionale, dove è addirittura "avanzata" una firma, che però non è
la firma "avanzata", ma quella "qualificata": una firma che
non esiste e che potrebbe tranquillamente essere prevista, in una prospettiva
futura, con una più attenta definizione delle firme sicure.
Ma c'è un punto ancora più importante. Per molto tempo i tecnici ci hanno
detto che la firma digitale presenta un grado di sicurezza altissimo, che è
praticamente inviolabile. I giuristi ne hanno dedotto che la firma digitale può
avere un'efficacia probatoria superiore a quella della sottoscrizione autografa,
prendendo per oro colato un'affermazione esatta, ma parziale. E sono arrivati
persino a decretare l'impossibile equivalenza (sul piano dell'ordinamento
giuridico) tra la firma digitale e la sottoscrizione autografa autenticata da un
pubblico ufficiale. Peccato che i tecnici si siano dimenticati di avvertire che
l'ambiente tecnologico in cui operano i software di firma e di verifica non
sempre è altrettanto sicuro, come hanno rivelato i primi "bachi".
Però il legislatore della prima ora aveva previsto, anche se con eccessivo
ottimismo, la necessità di proteggere il "contorno", introducendo una
serie di prescrizioni ad hoc. Per esempio aveva scritto che le
applicazioni "devono presentare, chiaramente e senza ambiguità, i dati a
cui la firma si riferisce". Il "baco dei campi dinamici" ha
mostrato che i tecnici hanno tranquillamente ignorato la disposizione. Il
legislatore aveva imposto alcuni standard di sicurezza, ma poi, accortosi della
mancanza di organismi di certificazione di quegli standard, ha deciso di
accontentarsi di un'autocertificazione da parte degli stessi certificatori. I
quali, naturalmente, hanno autocertificato il tutto, ma poi se ne sono
dimenticati. Fino a dire, come nel caso di FirmaeCifra, che la mancata
protezione dell'archivio dei certificati era voluta.
Dunque la prima lezione che dobbiamo ricavare da quanto è accaduto
fino a oggi è che non si possono lasciare le soluzioni di firma digitale sotto
l'esclusivo controllo dei tecnici, per bravi che siano. E' necessario che tutto
il ciclo di vita delle applicazioni sia sotto il controllo combinato
dell'esperto di diritto e di quello dell'esperto di informatica, in un confronto
continuo che richiede un difficile quanto indispensabile incrocio di competenze.
E lo stesso discorso va fatto per la produzione normativa.
Parlando di produzione normativa ci imbattiamo in un'altra serie di problemi.
Il più evidente emerge con grande chiarezza dalle risposte di Enrico Maccarone
a Orlando Urru: oggi Maccarone ci ricorda che il buon
funzionamento della società è fondato sul diritto; qualche giorno fa osservava
che non si possono imporre obblighi che non siano previsti dalla normativa in
vigore, mentre si deve tener conto di quelli già esistenti (nella fattispecie
la diligenza dell'utente), con un ragionamento giuridicamente ineccepibile (Il "baco" di PosteCom e le funzioni di vigilanza).
Però la realtà indica una situazione diversa da quella immaginata dal
legislatore: per i controlli sui prodotti e sulle procedure dei certificatori le
norme sono ancora in fieri, mentre la diligenza dell'utente può non
essere sufficiente per il semplice fatto che non ha la competenza necessaria a
svolgere certi controlli. Anzi, ignora addirittura che ci sia qualcosa da
controllare.
E allora, se da una parte è necessario accelerare l'emanazione delle
disposizioni già in fase di elaborazione, dall'altra si deve pensare a nuove
disposizioni che consentano di superare l'ostacolo costituito
dall'impreparazione degli utenti. Realisticamente non si può immaginare di
"alfabetizzare" milioni di utenti all'uso della firma digitale, al
punto di renderli consapevoli di tutti i trabocchetti che essa può nascondere.
Allora è necessaria una normativa che imponga di distribuire applicazioni
"a prova di idiota", dove la parola "idiota" è usata nel
suo significato etimologico di qualcuno che è "privo" di qualcosa,
nella fattispecie delle competenze tecniche necessarie all'impiego sicuro degli
strumenti tecnologici.
In un convegno di pochi anni fa, Maccarone poneva una domanda imbarazzante:
"Che se ne fa lo zio Totò della firma digitale"?
Ora abbiamo una risposta: sappiamo che lo zio Totò, e la sua amata consorte zia
Clotilde, dovranno prima o poi fare uso della firma digitale, o della carta
d'identità elettronica, o della carta dei servizi, o di tutte e tre. In un modo
o nell'altro dovranno confrontarsi con le tecnologie, almeno nei momenti in cui
si presenteranno come cittadini di fronte alla pubblica amministrazione.
L'altra sera cercavo di spiegare un po' di queste cose alla zia Clotilde. Che
è una signora sveglia, ma assai diffidente verso i gadget tecnologici.
Afferrata la funzione della smart card, la zia ha detto: ma allora la consegno
all'impiegato e poi ci pensa lui. Sì, ho risposto, ma se incontri un mascalzone
che si fa passare per l'impiegato, quello può fregarti la pensione. E non una
sola volta, perché può firmare al tuo posto una delega a ritirarla sempre.
La zia Clotilde continua a diffidare delle tecnologie.
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