C'è un filo rosso che collega i tentativi (finiti male) di modernizzare il
rapporto fra Stato e Cittadini grazie alle tecnologie dell'informazione: l'abuso
cieco della tecnologia commesso dal legislatore e dall'esecutivo a danno degli
istituti giuridici dei quali si voleva consentire la fruizione online.
Le vicende legate all'inviluppo della firma digitale e della carta di
identità elettronica sono, da questo punto di vista, realmente paradigmatiche
perché sono state caratterizzate dalla confusione sistematica fra identità e
identificazione.
Ho scritto diversi articoli sul tema dell'identità personale e della
progressiva privatizzazione dei criteri e dei metodi (uso la parola
"metodi" con un fine preciso) per certificarla. Volutamente, ho
parlato e parlo di identità tout-court e non di identità "virtuale",
"online" e di altri "aggettivi 2.0" perché da un punto di
vista giuridico il soggetto è uno (la persona), e una è la sua identità a
prescindere dal metodo che viene utilizzato per verificarla.
L'identificazione è un atto giuridico, non un fatto tecnico, e in quanto
tale non ammette "gradazioni": quando un poliziotto mi ferma per un
controllo documenti o quando stipulo un contratto delle due l'una: o io sono io,
oppure non lo sono. Il tertium genus, nel diritto, non esiste.
D'altra parte, è un fatto che le teorie giuridiche dell'identità e
dell'identificazione sono state pensate in un periodo storico dove lo Stato
aveva avocato sé il controllo sociale e l'identificazione del cittadino
obbediva, innanzi tutto, a logiche di ordine pubblico riservando ad ambiti
ristretti il ricorso alla "identificazione certa" tramite pubblico
ufficiale (tipicamente, compravendite immobiliari e poco altro).
Questo status quo era il prodotto di (o era stato causato da) un sistema
economico nel quale gli scambi avvenivano a velocità, frequenza e intensità
molto basse, e nei quali il fattore tempo aveva un'importanza relativa.
Chi ha vissuto almeno una parte dell'età adulta nel mondo pre-internet
ricorda bene quanto fosse normale "ordinare" un prodotto in un negozio
e aspettare settimane prima di poterlo ricevere. C'era tutto il tempo per
negoziare i termini dell'acquisto, stabilire i modi del pagamento e - sopratutto
- per "guardarsi in faccia". Breve: le dinamiche economiche dell'epoca
non richiedevano regole giuridiche in grado di gestire le transazioni alla
velocità della rete.
L'arrivo dell'e-commerce e della possibilità di fruire online di servizi
tradizionali e di nuove opportunità ha sconvolto la continuità giuridica,
inserendo il fattore tempo nell'equazione della compravendita. Tutto è più
veloce, se non addirittura istantaneo e in una ipertransazione giuridica non
c'è tempo per timbri a secco e copie conformi.
Ancora una volta - anzi, fin dall'inizio - è Amazon a fare scuola: struttura
il processo di acquisto su una identificazione forte, ma realizzata con sistemi
leggeri (la carta di credito, come sostituto di quella di identità, incrociata
con l'indirizzo di residenza e consegna dei prodotti ordinati).
Viceversa (vedi il caso di SPID, ma prima ancora il tentativo di far passare
per firma digitale l'uso delle credenziali di autenticazione) sempre più spesso
ci troviamo di fronte a identificazioni deboli realizzate con strumenti
(teoricamente) forti.
Posta la questione in questi termini, risulta allora evidente che nella gestione
pubblica dell'identità digitalizzata siamo di fronte a un'inversione fra
obiettivi e metodi: come amava ripetere spesso Giancarlo Livraghi "la coda
agita il cane".
Per poter affrontare seriamente il tema del "identificare con
certezza" dobbiamo innanzi tutto essere disposti ad accettare un concetto
di identità più articolato (per contenuti e finalità), lasciando però
graniticamente fermo quello di identificazione.
Senza questo passaggio, di marca strettamente giuridica, il settore pubblico
continuerà a sprecare tempo e soldi in una tela di Arianna fatta di firma
digitale, carta d'identità elettronica, carta nazionale dei servizi e - da
ultimo - di Sistema pubblico di identità digitale, senza riuscire a proiettare
l'Italia - non dico nel futuro - ma almeno nel presente.
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