Si è svolta il 17 gennaio scorso a Roma la conferenza "La sicurezza ICT
nella pubblica amministrazione: strategie ed azioni". Organizzata dal
Centro nazionale per l'informatica nella pubblica amministrazione (CNIPA) ha
offerto un quadro d'insieme non entusiasmante, che in sostanza riproduce la
situazione generale dell'uso delle tecnologie negli uffici pubblici: grande
diffusione di PC accompagnata da scarsa consapevolezza dei problemi del loro
impiego, qualche isola di eccellenza e molta strada ancora da fare nella maggior
parte delle strutture. E' quanto si deduce dall'intervento di apertura di Claudio Manganelli, componente del CNIPA e presidente del
Comitato
tecnico
nazionale per la sicurezza ICT nella pubblica amministrazione, sorto nel
2003 per iniziativa congiunta dei ministri dell'innovazione e delle
comunicazioni.
"Dai dati del CNIPA, relativi al 2004 e limitatamente alle amministrazioni
centrali - ha detto Manganelli - "si ricava un insieme di informazioni
sullo stato della loro sicurezza ICT: tema che è generalmente piuttosto
avvertito ma, a fronte di una predisposizione in termini tecnologici
relativamente elevata si pongono in evidenza lacune per gli aspetti
organizzativi e per quelli attinenti alla pianificazione, alla formazione ed
alla gestione".
"A tre anni dalla direttiva del gennaio 2002 - ha aggiunto il presidente
del CTNSI - solo il 43% delle amministrazioni centrali dichiara di avere
nominato un responsabile della sicurezza ICT; solo il 37% di avere definito
formalmente una policy della sicurezza; solo il 53% di avere avviato un piano di
formazione e sensibilizzazione; solo il 22% dichiara di disporre di un gruppo
interno di gestione degli incidenti. E che vi siano ancora posizioni di
retroguardia sulla materia 'sicurezza ICT' lo dimostrano i continui rinvii delle
misure 'minime' di sicurezza per le pubbliche amministrazioni, previste dal
'Codice in materia di protezione dei dati personali' ".
Ma non 'è solo il Comitato nazionale per la sicurezza: per iniziativa dello
stesso comitato, in seno al CNIPA è stato costituito un organismo che si chiama
GovCERT
e dovrebbe funzionare come i tanti CERT (Computer Emergency Response Team)
sorti in tutto il mondo sulla falsariga del primo, nato nel 1998 presso la
Carnegie Mellon University. In realtà la sigla nasconde una variazione
sull'originale: la "R" non sta per Response, ma per Readiness.
In buona sostanza si guarda più alla prevenzione che alla risposta all'emergenza. Il che pone seri interrogativi su chi-fa-cosa al
momento in cui una situazione critica è in atto.
Dalla conferenza è emerso anche che la consapevolezza dei problemi non manca (si veda
l'intervento di Carlo Sarzana di S. Ippolito, componente del CNTSI.
Ma sembra
che non ci sia un'efficiente catena di trasmissione che, oltre ai bollettini
sulle minacce, diffonda capillarmente anche la "cultura della
sicurezza" e le conoscenze tecniche indispensabili per realizzarla. E'
significativo in questo senso il confronto tra la situazione italiana e quella
tedesca, illustrata al convegno dal responsabile del Bundesamt für
Sicherheit in der Informationstechnik (Ufficio federale per la sicurezza informatica):
sorto nel 1991(!), conta oltre 450 dipendenti e ha un bilancio di quasi 52
milioni di euro (vedi la relazione di Udo Helmbrecht).
Un altro relatore straniero ha detto cose molto interessanti: il professor Edward Luttwak, consulente del governo statunitense, noto anche al pubblico
televisivo italiano. Luttwak ha tracciato un quadro drammatico della visione
americana della sicurezza dopo l'11 settembre 2001, con problemi dei quali si
avvertono gli echi anche da noi (per esempio, la questione delle intercettazioni
autorizzate dal presidente Bush in barba a tutte le - già scarse - garanzie per
la vita privata dei cittadini). Su questo argomento è intervenuto anche il
Garante italiano, Francesco Pizzetti, che però ha si è limitato a
considerazioni troppo generiche per la delicatezza della materia.
Il professore americano ha trattato temi di attualità anche in Italia, come
quello della carta d'identità: negli USA non esiste e, come in Gran Bretagna,
ci sono fortissime resistenze alla sua introduzione, appunto in nome della
privacy: è nella cultura del Paese, ha detto Luttwak, il diritto del cittadino
di mantenere nascosta la propria identità o addirittura di cambiarla.
Sicché, è la nostra conclusione, gli americani impongono all'Europa quello che
non riescono a imporre a casa propria, per esempio il passaporto
"biometrico", che in Italia dovrebbe essere adottato a partire dagli
ultimi mesi dell'anno.
Il problema del passaporto biometrico è simile a quello della carta
d'identità elettronica (vedi sul numero scorso Carta
vince, carta perde: chi vince nel gioco della CIE?), con la differenza che
il passaporto sfrutta adotta
la più recente tecnologia RFID al posto della banda ottica: comunque costi altissimi in nome di
un'altissima sicurezza... teorica. Perché, come spiegava Paolo Attivissimo
quasi due anni fa su Apogeo on line, in troppi casi alla "catena della
sicurezza" possono mancare alcune maglie e si possono avere documenti
autentici, che attestano ufficialmente e senza incertezze una falsa identità.
E così si ritorna al tema di fondo delle tante misure che limitano la
libertà dei cittadini onesti senza provocare serie difficoltà ai
malintenzionati, che possono sempre trovare il "buco nella rete"
attraverso il quale passare senza lasciare tracce (se ne parla dai giorni che
seguirono gli attentati dell'11 settembre - vedi Ora è a rischio la libertà
della Rete e negli ultimi mesi Libertà e sicurezza: un binomio impossibile? e gli
articoli successivi sulla "legge Pisanu").
Da tutto questo si può ricavare la sensazione che ottenere un ragionevole
livello di sicurezza pubblica - non solo sul piano dell'uso delle tecnologie -
costituisca una specie di quadratura del cerchio. In realtà, come tutti
dovrebbero sapere, la sicurezza assoluta non esiste e i tentativi di
raggiungerla hanno un costo spropositato. E non solo in termini strettamente
economici.
Dunque sarebbe necessario un approccio realistico, meno viziato da illusioni
poliziesche di controllo globale, ma fondato su una corretta valutazione dei
rischi e sulla disponibilità dei mezzi per combatterli (e qui vale ancora
l'esempio della Germania).
Non bastano, come in Italia, un po' di comitati, sia pure composti da
persone di grande competenza, che tutt'al più possono produrre qualche elegante
brochure. Il risultato finale non può essere che una sicurezza
"sulla carta", che ben si può definire "sicurezza di carta"
(vedi Sicurezza reale e sicurezza
di carta di Andrea Monti, a proposito dei "bug" dei sistemi di
firma digitale).
Che è come la sicurezza richiesta ai comuni dal Ministero dell'interno per
l'emissione delle carte d'identità elettroniche, che in molti casi si risolve
nella compilazione di un modulo predisposto dallo stesso ministero.
Ci vuole ben altro.
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