Informative aggiornate e nomina del Responsabile della protezione dei dati
sono in questi giorni un bel problema per molte aziende e pubbliche
amministrazioni. Per il DPO qualcuno cerca scorciatoie che possono essere
pericolose.
Queste sono giornate molto impegnative per i professionisti della protezione
dei dati. Il telefono squilla in continuazione, l'email scarica a ripetizione
messaggi che chiedono "consigli" (leggi: consulenze gratis...) in
vista dell'applicazione del GDPR. Il tema che assilla molti titolari di
trattamenti è la ricerca di un DPO, possibilmente a basso costo.
Ricerca destinata a restare senza esito, perché nessun professionista serio non
butta via le proprie competenze per due soldi.
Ma per capire il problema è utile incominciare dagli aspetti più
significativi contemplati dal Regolamento europeo, articoli 37, 38 e 39.
Il DPO deve avere due qualità imprescindibili: a) l'assenza di conflitto di
interessi; b) una competenza approfondita sulla normativa in materia di
protezione dei dati personali, italiana ed europea.
Il conflitto di interessi esclude che possa essere nominato DPO un dirigente che
abbia voce in capitolo, per qualsiasi funzione, in materia di trattamento di
dati personali. Si escludono dunque in partenza il Titolare e i
Responsabili dei trattamenti, escono di scena anche tutti i responsabili e gli
addetti dell'amministrazione e del personale, insieme agli amministratori di
sistema e ai responsabili della sicurezza. Dell'ufficio legale interno, quando
c'è, non è neanche il caso di parlare.
All'inizio in molte aziende si è pensato di affidare il compito di DPO
all'avvocato esterno o allo studio legale che cura regolarmente o saltuariamente
gli interessi della stessa azienda. Si è capito presto che la strada è
impraticabile, proprio perché il DPO deve curare anche le ragioni degli
Interessati e fungere da punto di contatto per il Garante. Il conflitto di
interessi è evidente.
Dunque un avvocato esterno può rivestire la funzione di DPO, ma non deve
avere alcun altro incarico dall'azienda o dalla pubblica amministrazione
titolare del trattamento.
Quando l'azienda è di grandi dimensioni, un dirigente può essere nominato
DPO, ma non deve occuparsi in altro modo di trattamenti di dati. In molti casi,
per esempio nei grandi operatori di telecomunicazioni, il DPO da solo può non
bastare: va messo a capo di un "ufficio per la protezione dei dati"
destinato solo a questo scopo.
In ogni caso il DPO deve possedere anche la seconda qualità citata
all'inizio. Dice il GDPR: Il responsabile della protezione dei dati è
designato in funzione delle qualità professionali, in particolare della
conoscenza specialistica della normativa e delle prassi in materia di protezione
dei dati, e della capacità di assolvere i compiti di cui all'articolo 39,
come stabillisce il comma 5 dell'art. 37 del GDPR.
Qui c'è un punto chiave. L'espressione "conoscenza specialistica della
normativa" significa che il soggetto candidato al ruolo di DPO deve essere
capace in primo luogo di leggere e interpretare un testo normativo. Quindi, se
non necessariamente un avvocato, almeno un laureato in giurisprudenza. Ma non
basta, perché l'aggettivo "specialistica" comporta una conoscenza
della materia che non si può acquisire con un seminario di poche ore, anche per
chi ha una preparazione giuridica di base.
Non parliamo poi di ingegneri o informatici, che nella maggior parte dei casi
non hanno le basi "culturali" per trattare problemi normativi. E,
salvo casi eccezionali, non possono assimilarle con un corso di qualche
settimana.
Per quanto possa valere la mia esperienza personale, dopo quasi trent'anni che
studio i problemi dei trattamenti di dati, conosco un solo ingegnere veramente
capace di dominare la materia.
A questo punto dovrebbe essere chiaro a tutti (ma non lo è, dalle mie
esperienze di questo periodo) che il Responsabile della protezione dei dati è
una persona di alta preparazione. Un professionista esperto, o un alto
dirigente, se interno a un'azienda o un ente.
Il che significa, fra l'altro, una retribuzione adeguata. E qui incominciano i
problemi per le piccole imprese, per non parlare delle micro, in cui il ricorso
a un professionista di livello adeguato può costituire un impegno economico
difficile da sostenere, ma solo a prima vista.
In linea di massima la piccola impresa non ha bisogno di un DPO a tempo
pieno, se non tratta grandi quantità di dati. Può ricorrere a un
professionista o a una struttura esterna che svolga lo stesso ruolo per diverse
imprese, con un costo proporzionato all'impegno effettivo richiesto (sul punto
si veda l'articolo di Patrizio Galeotti Quanti
incarichi per un Responsabile della protezione?).
Identificare e stipulare contratti di questo tipo dovrebbe essere compito delle
associazioni di categoria, ma non risulta che molte lo abbiano fatto.
E qui salta fuori la soluzione che qualcuno definirebbe
"all'italiana". Si nomina DPO un prestanome, una testa di legno,
"tanto poi a tutto pensa il nostro avvocato".
Si dimentica però un dettaglio essenziale: il Responsabile della protezione dei
dati ha tra i suoi compiti "cooperare con l'autorità di controllo e
fungere da punto di contatto per l'autorità di controllo per questioni connesse
al trattamento" (art 39, paragrafo 1).
Ora immaginiamo il caso che il Garante per la protezione dei dati personali
(la nostra "autorità di controllo") prenda contatto con uno di questi
finti DPO e si trovi come interlocutore un simpatico ragioniere o un esperto
informatico, non in grado di sostenere una discussione su problemi di diritto.
In linea di principio potrebbe rilevare che l'azienda non ha rispettato la
prescrizione dell'art. 37, dove si dice che il DPO deve essere "designato
in funzione delle qualità professionali, in particolare della conoscenza
specialistica della normativa e delle prassi in materia di protezione dei
dati".
Sempre in linea di principio, questo "dettaglio" potrebbe essere
considerato come una violazione dell'art. 37, passibile di una sanzione
amministrativa fino a 10 milioni di euro (art. 83, paragrafo 4). Nessuna
piccola impresa subirà una bastonata di questo ordine di grandezza, perché le
sanzioni devono essere "in ogni singolo caso effettive, proporzionate e
dissuasive" (sempre l'art. 83, paragrafo 1).
Ma, in ogni caso,"dissuasive".
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