L’ordinanza
10/2020 del Commissario straordinario per l’attuazione e il
coordinamento delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza
epidemiologica COVID-19 scrive la parola fine al capitolo
“Tracciamento si, tracciamento no” nel senso che, finalmente e nel
bene o nel male, il governo ha deciso di imboccare la strada del
monitoraggio delle persone per rilevare e segnalare contagi individuando
un “app”osito software concesso gratuitamente in licenza dalla società
che lo ha sviluppato al governo italiano . Nello stesso tempo, però, il
provvedimento lascia “non dette” alcune cose relative, in particolare,
alla sua sicurezza, che vista la criticità del momento avrebbero dovuto
costituire un elemento centrale nella selezione del prodotto.
Partiamo da aspetti strettamente giuridici: la società che ha
sviluppato il software di contact tracing, si legge nell’ordinanza,
esclusivamente per spirito di solidarietà e, quindi,
al solo scopo di fornire un proprio contributo, volontario e personale,
utile per fronteggiare l’emergenza da COVID-19 in atto, ha manifestato
la volontà di concedere in licenza d’uso aperta, gratuita e perpetua,
al Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle
misure di contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica
COVID-19 e alla Presidenza del Consiglio dei ministri, il codice
sorgente e tutte le componenti applicative facenti parte del sistema di
contact tracing già sviluppate, nonché, per le medesime ragioni e
motivazioni e sempre a titolo gratuito, ha manifestato la propria
disponibilità a completare gli sviluppi informatici che si renderanno
necessari per consentire la messa in esercizio del sistema nazionale di
contact tracing digitale.
Punto zero: c’era veramente bisogno di specificare che lo
sviluppatore concede in licenza il software “esclusivamente per spirito
di solidarietà ecc. ecc.”? Dal punto di vista del diritto d’autore,
certamente no, a meno che non sia il modo per attenuare (o eliminare) le
responsabilità per danni derivanti da errata progettazione o da errato
sviluppo del software. Come è noto, infatti, la “gratuità” di un
software implica un regime di responsabilità meno afflittivo rispetto a
chi si fa pagare per un pacchetto o un programma sviluppato ad hoc.
Punto primo: i licenziatari sono dunque il Commissario straordinario e
la Presidenza del Consiglio i quali dovranno predisporre una sub-licenza
da far accettare a chi utilizza questo software. Dato che la licenza
concessa dallo sviluppatore implica anche l’accesso ai codici sorgenti
– e dunque la possibilità di verificare qualità e sicurezza del
software – tutte le responsabilità per mal-trattamento dei dati,
errori, danni e circolazione non autorizzata di dati particolari ai sensi
dell’articolo 9 del GDPR ricadono sui licenziatari (e dunque, sul
Commissario e sul Presidente del Consiglio).
Punto secondo: l’ordinanza parla di licenza “aperta” ma non
specifica se si tratta di GPL (l’unica che può effettivamente chiamarsi
“libera”) oppure di una delle tante licenze che rientrano nella Open
Source Initiative, o ancora un’altra forma “indipendente” di licenza
d’uso. La differenza non è banale, perchè mentre la GPL obbliga alla
redistribuzione del codice sorgente alla sua modifica, altre licenze
“aperte” non consentono questa possibilità. Come oramai è
pacificamente dimostrato, la disponibilità dei sorgenti migliora qualità
e sicurezza del software quindi ci si aspetterebbe che il Governo si sia
assicurato la possibillità di rendere pubblici gli “schemi tecnici”
del software. Non è solo una questione di sicurezza, ma anche di
democrazia: i cittadini hanno il diritto di sapere “cosa fa” e “come
funziona” un oggetto dal quale dipende, letteralmente, la loro vita.
Attenzione, la vita, non “la privacy”, perchè se questo software è
scritto male o è vulnerabile può provocare danni anche irreversibili, al
cui confronto la preoccupazione per “la privacy” è senz’altro
marginale.
Punto terzo: nell’ordinanza non si parla nè dell’analisi nè dei
commenti al codice sorgente, che sono gli elementi essenziali per capire
come è fatto e cosa fa un software. Senza queste informazioni è
difficile rivedere un codice che va compreso riga per riga senza nessun
aiuto. Questo rende più difficile l’attività di debugging, sempre che
sia consentita.
C’è da sperare che questi elementi (e diversi altri che per brevità
non indico, relativi per esempio a chi dovrebbe essere responsabile delle
analisi obbligatorie ai sensi degli articoli 25 – data protection by
default e by design e 32 – Misure di sicurezza del GDPR) verranno presi
in considerazione quando verrà stipulato il contratto fa le parti.
(da Ictlex.net)
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