|
Prima o poi doveva succedere.
Il lato oscuro dei "social" illuminato di colpo da uno scandalo
senza precedenti. I dati personali di più di cinquanta milioni di
cittadini usati per influenzare il voto per l'elezione del presidente
degli Stati Uniti. Niente di nuovo per quanto riguarda il fine: questo
libro del 1970 spiega come la televisione fu usata per manipolare
l'opinione pubblica nelle elezioni presidenziali del 1968.
Cinquant'anni dopo, i meccanismi della persuasione occulta sfruttano i
social network e la dipendenza dalle tecnologie. Le regole sul trattamento
dei dati non bastano. Serve una "tecnoetica", che si traduca in
leggi per il rispetto della libertà dei cittadini digitali. |
La sostanza dei fatti è semplice e non sorprende chi ha un'idea, anche
generica, di come funzionano in realtà i social network . Un'app come tante ha raccolto
da Facebook i dati personali di più di cinquanta milioni di americani; il
creatore dell'app ha venduto i dati a una società specializzata, la britannica
Cambridge Analytica; questa ha elaborato i profili e li ha usati per somministrare informazioni addomesticate
agli elettori, inducendoli a votare per un candidato e mettendo in cattiva luce
la sua avversaria.
Ora si cerca il colpevole. Facebook, dice qualcuno, non Cambridge Analytica,
che ha fatto il lavoro sporco. Mark Zuckerberg ha aspettato tre giorni per
pubblicare un post di autocritica e di promesse, ma quanti crederanno alle buone
intenzioni del boss di Facebook?
Troppi, forse. Ma il solo fatto che abbia taciuto per tre giorni e non abbia
affrontato una conferenza stampa la dice lunga. E' stato convocato da
istituzioni e tribunali vari, mentre i media si interrogano su mandanti e
mandatari. Ma probabilmente Zuckerberg non dirà che Facebook è solo un
ingranaggio (forse il più importante, ma di sicuro in numerosa compagnia), di
un meccanismo globale che fa del traffico di dati personali uno strumento
essenziale dell'economia e della politica.
E' stato creato un circolo vizioso dal quale non sembra facile trovare una
via d'uscita: un numero crescente di persone ha il telefonino o il tablet come snodo
principale del lavoro, del tempo libero e delle relazioni con gli altri.
L'apparecchio è la sua finestra sul mondo, tende a credere qualsiasi cosa gli
venga comunicata attraverso i social e, se qualcuno gli dice «guarda che sono
fake news», risponde «allora anche tu fai parte del complotto».
Intanto lo stesso utente fornisce ai padroni delle app una quantità
smisurata di informazioni sul proprio conto. Non solo quelle che mette
consapevolmente in rete (spesso non valutando le conseguenze), ma anche quelle
che possono essere dedotte dalle sue scelte, dai suoi comportamenti, da dove va,
da quello che scrive o che non scrive. Così alimenta il proprio profilo, che
viene usato per dargli notizie addomesticate allo scopo di orientare i suoi
acquisti e le sue scelte, anche politiche.
Dice Zuckerberg: verificheremo ogni app sospetta. Ma se dagli smartphone
fossero eliminate tutte le app che spiano l'utente, non resterebbe più niente e
il sistema si fermerebbe.
Certo, ci sono le leggi che regolano il trattamento dei dati personali. Alla
luce del nuovo e più grave Datagate (il primo risale al 2013) fanno ridere, o
piangere. Altro che informativa, consenso, principi di finalità e di
continenza... Gli Over The Top, i padroni dei Big Data e dei social, gli
specialisti della profilazione e della persuasione occulta non si curano di
questi dettagli. Tanto, è il ragionamento, per un illecito che viene scoperto e
sanzionato altri cento vanno avanti indisturbati. Che importa a Mark Zuckerberg
di una multa di qualche milione di dollari, quando può perdere sei miliardi in
tre giorni senza batter ciglio?
Serve un approccio diverso. Si deve partire dall'idea che il progresso delle
tecnologie, che è utile per migliorare la vita delle persone, deve essere anche
un motore della libertà (è quello in cui credevamo più di vent'anni fa, ai
primi tempi dell'internet). E poi sviluppare questa idea per disegnare un nuovo
quadro di regole che abbia al centro la persona, non il dato.
In sintesi, occorre un'etica delle tecnologie. Come i rischi insiti nei
progressi della biologia e della medicina hanno portato allo sviluppo della
bioetica, così gli sviluppi delle innovazioni digitali devono essere assistiti
da una "tecnoetica" che sia di riferimento per i legislatori e di
orientamento per le imprese.
Solo in questo modo potremo sottrarci al ricatto digitale che condiziona le
nostre vite: i tuoi dati in cambio della tua esistenza in rete, i tuoi dati per
farti fare quello che interessa a noi. Senza alternative.
|