Da qualche mese sono cambiate le informazioni "sulla privacy" che
molti siti presentano agli utenti. In particolare quelle dei "big"
come Google o Amazon. E' l'effetto delle "linee guida" emanate dal Garante il 10 giugno scorso,
che rinnovano quelle pubblicate nel 2014 (che erano servite, in sostanza, a
mascherare meglio i trattamenti irregolari). Dopo sette anni il Garante italiano
si è accorto dell'interpretazione furbesca delle sue indicazioni (condivise con
i colleghi della UE) e ha prodotto un nuovo testo. Cosa è cambiato? Nulla.
I predatori dei dati hanno modificato qualche dettaglio formale. Le "informazioni" – che nella prima generazione delle norme si
chiamavano con più chiarezza "informativa" – sono costruite solo
all'apparenza nel rispetto delle "linee guida": una prima nota breve,
dalla quale si può accedere a una più dettagliata, oppure cliccare su ACCETTA
TUTTO. Scelta compiuta dalla maggior parte degli utenti, che al clic su PER
SAPERNE DI PIÙ si trovano di fronte pagine e pagine di parole inutili. Lettura
snervante per chi vuole veramente capire che fine fanno i propri dati. Sicché
il clic su ACCETTA TUTTO diventa una reazione automatica.
Ma anche chi, per farsi del male o per semplice curiosità, legge con
attenzione l'informativa "lunga", non ottiene le informazioni più
critiche. Sono quelle relative alla profilazione (definita nel GDPR all'art. 4,
n. 4), che è la fonte di reddito principale dei predatori dei dati, ma non
viene mai citata per nome. Un motivo c'è: se si dichiarasse l'attività di
profilazione, sarebbe necessario rispettare l'articolo 13 , paragrafo 2, lett.
f) – o l'art.
14, 2, g) – e poi il 15, 2, h), il 21,1 e il 22,1...
Eppure sarebbe semplice rispettare le regole del GDPR, senza nemmeno
consultare le (torrenziali, illeggibili, incomprensibili) "linee
guida". Sono pochissimi i siti in cui l'informativa breve offre la scelta
tra: a) accettare i soli cookie "tecnici" necessari per l'uso del sito
stesso; b) accettare anche i cookie "di terze parti" o che comunque raccolgono
informazioni personali; c) leggere le informazioni aggiuntive e accettare solo
alcuni cookie (o altri strumenti di raccolta di dati).
Qualcuno sceglie altre strade. Per esempio, sul sito di un negozio di Roma si
legge: «Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore
esperienza su questo sito. Se continui a usare questo sito noi assumiamo che tu
ne sia felice - OK - NO - LEGGI DI PIÙ».
Dunque i cookie danno la felicità. Filosofi di tutti i tempi, psicologi,
sociologi, tuttologi, prendete nota. Chi non è felice è perché non accetta i
cookie!
Ma c'è un altro motivo di infelicità per chi, come l'autore di queste note,
ha un interesse professionale alla conoscenza delle questioni sulla protezione
dei dati personali e si autoinfligge la lettura delle informazioni dettagliate.
Nel caso, quelle del sito dei cookie della felicità. Si aprono
senza indicare il titolare del trattamento, né lo lo indicano nel prosieguo, e si chiudono citando i diritti
dell'interessato, fra i quali quello di ricorrere all'autorità competente.
All'uopo si riporta l'indirizzo email e persino il numero di telefono.
L'indirizzo è commissioner.dataprotection@gov.mt. Cioè
l'autorità di Malta!
Non finisce qui. Un'accurata indagine sul sito in questione
rivela che... non viene usato alcun cookie! È la dimostrazione lampante di come
il GDPR e buona parte dell'attività delle autorità di controllo non abbiano
altro effetto che l'imposizione di procedure burocratiche.
Tutti abbiamo notato che la maggior parte dei siti offre informazioni molto
simili, se non identiche. Si tratta di "plug-in", pezzi di software
preconfezionati da sedicenti specialisti di data protection. Questi
software, si afferma, analizzano il sito e producono automaticamente le
informazioni del caso. Così il titolare del trattamento paga pochi euro ed è
convinto di "essere a posto con la privacy".
Ma, plug-in o no, nessuno può dire di "essere a
posto con la privacy" nella forma e/o nella sostanza. Il perché è chiaro:
la complessità e la contraddittorietà dell'insieme delle disposizioni sulla
protezione dei dati personali lasciano troppi varchi per chi vuole aggirare le
norme. E anche per le autorità di controllo, che possono trovare di volta in volta un
appiglio per procedere contro un titolare. O per non procedere, o per rimandare
alle calende greche i provvedimenti inibitori o sanzionatori.
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