Mentre il GDPR diventa applicabile, non vede la luce il decreto di
armonizzazione del "Codice privacy" che il Governo era stato delegato
ad adottare entro il 21 maggio. Si parla di una proroga, sulla cui legittimità
ci sono seri dubbi.
Ci sono le fibrillazioni atriali di un intero Paese impegnato in una
grossolana rincorsa al 25 maggio – oggi, data di applicazione del GDPR – con
soluzioni dell’ultima ora che dovrebbero far riflettere già soltanto
per il timing della loro adozione (mi riferisco, ad esempio, alle linee guida
intitolate "il GDPR e l’avvocato", rese note dal Consiglio Nazionale
Forense il 22 maggio, a tre giorni dalla scadenza). E c’è un fantasma che si
aggira nei sotterranei del sistema, del quale nessuno parla, e che è il caso di
guardare dritto negli occhi, per capire se si tratti di un morto che cammina,
deceduto il 21 maggio, (scadenza del termine per l’esercizio della delega alla
emanazione del leggendario decreto di armonizzazione tra normativa nazionale e
GDPR), o di una sorta di Lazzaro istituzionale, la cui risurrezione viene data
un po’ troppo per scontata.
Come tutti sanno, esiste una legge delega (la 163/17) che impegnava il Governo a recepire
una serie di direttive europee,e che all’art. 13 aveva anche conferito,
appunto, la delega per l’armonizzazione tra GDPR e Codice privacy. In un unico
contesto, quindi, venivano conferite due deleghe che avevano ed hanno natura
completamente diversa l’una dall’altra: altro è recepire una direttiva,
altro è delegare il Governo ad un’attività che prescinde del tutto dalla
esistenza stessa di una Direttiva.
Nonostante ciò, nell’art. 13 il Legislatore delegato ha ritenuto di
operare un richiamo che a questo punto diventa decisivo:
"Il Governo e' delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di
entrata in vigore della presente legge, con le procedure di cui all'articolo
31 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, acquisiti i pareri delle competenti
Commissioni parlamentari e del Garante per la protezione dei dati personali,
uno o più decreti legislativi al fine di adeguare il quadro normativo nazionale
alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679"
Si tratta, quindi, di un decreto legislativo, che, nonostante non abbia nulla
a che vedere con il recepimento di una direttiva, deve esser adottato seguendo
"le procedure" previste dall’art. 31 L. 234/12, che reca "Norme
generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della
normativa e delle politiche dell'Unione europea"
L'art 31 al comma 3, prevede quanto segue:
"La legge di delegazione europea indica le direttive in relazione
alle quali sugli schemi dei decreti legislativi di recepimento è acquisito il
parere delle competenti Commissioni parlamentari della Camera dei deputati e del
Senato della Repubblica. In tal caso gli schemi dei decreti legislativi sono
trasmessi, dopo l'acquisizione degli altri pareri previsti dalla legge, alla
Camera dei deputati e al Senato della Repubblica affinché su di essi sia
espresso il parere delle competenti Commissioni parlamentari. Decorsi quaranta
giorni dalla data di trasmissione, i decreti sono emanati anche in mancanza del
parere. Qualora il termine per l'espressione del parere parlamentare di cui al
presente comma ovvero i diversi termini previsti dai commi 4 e 9 scadano nei
trenta giorni che precedono la scadenza dei termini di delega previsti ai commi
1 o 5 o successivamente, questi ultimi sono prorogati di tre mesi."
Se questa dinamica si applica alle vicissitudini che hanno
accompagnato lo schema di decreto di armonizzazione, emerge quanto segue:
- lo schema è stato trasmesso il 10 maggio alle Commissioni Parlamentari
(speciali, in assenza di quelle permanenti ancora non insediate fino alla
formazione del nuovo Governo), che avrebbero dovuto esprimere il proprio parere
entro 40 giorni;
- la delega scadeva però, nel frattempo, il 21 maggio;
- in virtù dell’inciso finale dell’art. 31 comma 3 L. 234/12, quel
termine dovrebbe intendersi prorogato di 3 mesi, e quindi le Commissioni
potrebbero continuare il loro lavoro, esprimere il parere e mettere il Governo
in condizioni di emanare il decreto entro la nuova scadenza del 21 agosto.
Il giochino, a prima vista, sembra poter funzionare (per questo i lavori
delle Commissioni speciali presso la Camera ed il Senato stanno proseguendo, in
silenziosa tranquillità), ed a dispetto della "esportazione" di una
dinamica propria dei decreti di recepimento di direttive alla diversa
fattispecie della delega che ci riguarda, il cerchio istituzionale viene dato
per chiuso, dando allo schema di decreto di armonizzazione il volto della
risurrezione.
C’è però un problemino...
Lo schema che è stato trasmesso al Senato (reperibile sul relativo sito
istituzionale, e quindi certamente non un fake), reca al suo interno anche la lettera con la quale la Ministra dei rapporti con il
Parlamento invia il testo al Presidente dell’Assemblea, lettera nella quale si
legge:
"in considerazione della imminente scadenza della delega, e di quanto
previsto dall’art. 31 comma 3 L. 234/12, Le segnalo a nome del Governo la
urgenza dell’esame del provvedimento, pur se privo del parere del Garante per
la protezione dei dati personali, che mi riservo di trasmettere non appena sarà
acquisito".
Si chiede, quindi, alle Commissioni di iniziare i lavori, senza aver prima
acquisito il parere del Garante.
La prima domanda è: lo si poteva fare? La risposta è nel citato art. 31
comma 3 che, come abbiamo visto (e ne riporto il pertinente passaggio per
comodità di consultazione) prevede espressamente che "gli schemi dei
decreti legislativi sono trasmessi – alle Commissioni parlamentari - dopo
l'acquisizione degli altri pareri previsti dalla legge". Non
c’è quindi solo una ragione di ordine logico, che milita per far iniziare l’esame
parlamentare soltanto dopo che l’Autorità di riferimento abbia espresso il
proprio parere, ma c’è una norma di legge che lo prevede esplicitamente!
Inevitabile, allora, la seconda domanda: questa evidente alterazione della
procedura, può avere un impatto sulla effettiva applicabilità della proroga?
Si può cioè sostenere che la trasmissione dello schema di decreto legislativo,
non essendo stata preceduta dalla acquisizione del parere del Garante, si debba
considerare come mai avvenuta?
A modestissimo avviso di chi scrive (e lanciando solo uno spunto di
riflessione per tutti coloro che avranno voglia di ragionare sul tema), nel
momento in cui ci si vuole appoggiare all’art. 31 comma 3 L. 234/12, non lo si
può fare soltanto nella parte in cui fa più comodo, per agganciare la proroga,
ma lo si sarebbe dovuto fare in toto, e quindi inoltrando lo schema di
decreto alle Commissioni Parlamentari soltanto una volta acquisito il parere del
Garante.
Se quel parere non era stato reso, la trasmissione dello schema di decreto
non avrebbe quindi potuto soddisfare le condizioni istituzionali per fruire
della salvifica proroga.
Chissà! Magari è il caso che qualcuno in Parlamento rifletta sulla
opportunità di un approfondimento, prima di impegnare le Commissioni
parlamentari in un lavoro che potrebbe rivelarsi inutile, e si concentri nel
reperimento di diverse soluzioni istituzionali che salvino quel testo (un
decreto legge? E perché no: una legge ordinaria?) senza essere minate alla base
da un dubbio di costituzionalità di questa portata.
Nel frattempo, il Garante ha reso in data 22 maggio il suo parere
(pubblicato sul sito il 23 e, nonostante la sua importanza, non indicato in Home
page, non citato nella sezione dedicata al Regolamento Europeo, ma nascosto tra
i provvedimenti, in un incomprensibile gioco a rimpiattino). Avremo modo di
analizzare questo documento, ma quello che è certo, è che la sua pubblicazione
non sposta di una virgola il problema appena sollevato, che va valutato al
momento in cui lo schema era stato inviato alle Commissioni (e cioè il 10
maggio).
Ma soprattutto, nel frattempo, entra in piena applicabilità il GDPR, con una
opera di armonizzazione affidata necessariamente (almeno in prima battuta) agli
interpreti.
Che dire? In bocca al lupo a tutti noi. E chi ha paura dei fantasmi, inizi
pure ad occuparsi di altro.
* Avvocato
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