Ha fatto scalpore l'ordinanza del Tribunale di Milano, che ha riconosciuto
agli eredi il diritto di accedere ai contenuti dello smartphone del defunto. Ma
la notizia più importante è nel nucleo della motivazione: prende vita,
finalmente, il testamento digitale.
I fatti. Un giovane muore in un incidente. I genitori ritengono di avere diritto
a conoscere i contenuti del suo iPhone e si rivolgono alla Apple. Di fronte al
rifiuto di Cupertino, promuovono un procedimento d'urgenza.
Ci sono alcune interessanti peculiarità da sottolineare.
1. Il dispositivo è rimasto distrutto nell'incidente: siamo quindi in un'area
diversa da quella già esplorata in alcuni casi, nei quali gli eredi avevano
tentato di convincere Apple a forzare le credenziali (numeriche o biometriche)
di accesso ad uno smartphone. Si trattava di ipotesi in cui la privacy era stata
utilizzata come una misura di marketing, e Apple si era presentata come il
baluardo per la tutela della riservatezza delle persone decedute: è ancora
forte, in questa direzione, l'eco delle parole di Tim Cook (il nuovo Steve Jobs)
che, in occasione della strage di San Bernardino e dello scontro con l'FBI che
voleva accedere ai contenuti degli smartphone degli attentatori, si era opposto
con determinazione alla richiesta del Governo di creare una nuova versione del
sistema operativo iOS, che contenesse una sorta di backdoor utilizzabile
dalle forze di polizia per accedere ai contenuti.
Apple non si piega. E in alcuni casi si è arrivati ad un livello di scontro
tale da condurre ad alcune soluzioni a dir poco inquietanti, come il tentativo
di utilizzare l'impronta digitale di un cadavere per sbloccare
il suo telefonino.
Diversa, quindi, la fattispecie esaminata dal Tribunale di Milano, al quale
viene richiesto accesso non al cellulare distrutto nell'incidente, ma
direttamente ai server di Apple presso i quali i dati vengono sincronizzati e
salvati (o meglio, possono esserlo) grazie ad Icloud.
2. A fronte delle richieste avanzate a più riprese dagli eredi, Apple aveva
opposto la più anglosassone delle procedure, autoinvestite di una
autodichiarata cogenza para-normativa, indicando in particolare di esser
disponibile ad estrarre i dati soltanto in presenza di una serie di caveat
specifici.
3. Apple, chiamata in giudizio, ha deciso di non prendervi parte ed è
rimasta contumace: una condotta processuale piuttosto originale per dei paladini
della privacy, che come vedremo ha un effetto decisivo sulla definizione del
caso.
Il Tribunale, per decidere la controversia, esamina ed applica una norma di
eccezionale importanza, rimasta sotto traccia per anni, e tale da poter avere un
impatto veramente rivoluzionario sulla materia.
Il Codice Privacy già conteneva una disposizione, sintetica e circoscritta,
che permetteva di esercitare il diritto di accesso ai dati della persona
deceduta, da parte di chi fosse portatore di un "interesse proprio", o
agisse "a tutela dell'interessato" o "per ragioni familiari
meritevoli di protezione" (art. 9 comma 3 d.lgsl. 196/03 nella sua
originaria versione). Si trattava di un assetto, quindi, completamente
sbilanciato sulla posizione di chi volesse accedere, e non era in nessun modo
prevista la possibilità che quel diritto fosse impedito a monte dalla volontà
dell'interessato morto.
Se quindi la moglie, superstite del marito presunto fedigrafo, avesse voluto
accedere ai contenuti del suo smartphone, le sarebbe bastato addurre l'esistenza
di un interesse proprio, anche in termini di mere ragioni familiari. E il marito
defunto non avrebbe avuto nessuna possibilità di difendere un qualsiasi
proprio, anche innocentissimo segreto.
Domanda: è giusto? Partendo dall'assunto che dentro i nostri smartphone
galleggia tutta la nostra esistenza, è corretto eticamente, prima ancora che
giuridicamente, che i nostri eredi possano entrare a gamba tesa sulle nostre
più personali scelte, riflessioni, aspirazioni eccetera?
La risposta è venuta (piuttosto a sorpresa) con il DLGS 101/18: si tratta del
famoso decreto di armonizzazione che, dopo la entrata in vigore del GDPR, aveva
il compito di rendere compatibile il nostro Codice Privacy con le nuove
disposizioni del Regolamento Europeo.
E' proprio con questo decreto, che è stata introdotta nel nostro ordinamento
la disposizione dell'art. 2-terdecies del "nuovo" Codice
Privacy , rubricato "Diritti riguardanti le persone decedute": dopo
aver ribadito al comma 1 la esistenza dei diritti sui dati del defunto secondo
gli stessi presupposti già previsti dal "vecchio" Codice, al comma 2
viene introdotta una disposizione bomba:
"L'esercizio dei diritti di cui al comma 1 non è ammesso nei casi previsti
dalla legge o quando, limitatamente all'offerta diretta di servizi della
società dell'informazione, l'interessato lo ha espressamente vietato con
dichiarazione scritta presentata al titolare del trattamento o a quest'ultimo
comunicata".
Eccolo, il testamento digitale: a partire dal 2018, ognuno di noi può
erigere uno sbarramento a tutela della propria riservatezza post mortem,
inibendo l'accesso dei propri eredi (e di tutti coloro che si assumono portatori
di un interesse proprio) a tutti i servizi della società dell'informazione dei
quali si è usufruito in vita (il mio cellulare, il mio profilo Facebook, Instagram,
Twitter...).
Non solo. Il comma 3, prevede anche come fare: "La volontà
dell'interessato di vietare l'esercizio dei diritti di cui al comma 1 deve
risultare in modo non equivoco e deve essere specifica, libera e informata; il
divieto può riguardare l'esercizio soltanto di alcuni dei diritti di cui al
predetto comma"
La traduzione operativa è una semplicissima PEC, con una dichiarazione
(magari sottoscritta con firma digitale) inviata ad esempio alla Apple: ed il
sistema, nella sua interezza, trova un più equilibrato bilanciamento, che non
lascia campo completamente libero per accedere ai dati di chi è defunto.
E' proprio su questo piano che si apprezza la pronuncia del Tribunale di
Milano, che ruota intorno alla seguente, decisiva considerazione: "Dalla
corrispondenza intervenuta tra i ricorrenti e la società resistente emerge in
modo chiaro come il sig... non abbia espressamente vietato l'esercizio dei
diritti connessi ai suoi dati personali post mortem. Il titolare del
trattamento, infatti, nelle numerose comunicazioni inoltrate al difensore dei
ricorrenti, non ha mai fatto riferimento all'esistenza di una dichiarazione
scritta in tal senso"
La novità, quindi, non è affatto che un Giudice abbia ritenuto meritevole
di tutela il diritto di un erede ad accedere ai dati digitali del defunto: lo
avrebbe potuto fare anche prima della entrata in vigore del GDPR, nella vigenza
del "vecchio" Codice Privacy.
La portata dirompente della pronuncia, invece, sta nella ragione addotta dal
Giudice come cuore pulsante della motivazione: il diritto di accesso può esser
riconosciuto, perché non vi è la prova dell'esistenza di un "testamento
digitale": il che, indirettamente, equivale ad affermare che quel diritto
non avrebbe potuto esser esercitato laddove quella prova fosse stata acquisita
(e se Apple, invece di rimanere contumace, l'avesse fornita, ovviamente ove
esistente).
E' su questa base, ripeto, misconosciuta negli ultimi anni, e sul presupposto
di una lettura attenta dell'effettiva portata della ordinanza, che si potrà
costruire un volano informativo intelligente, che metta le persone in condizioni
di conoscere l'esistenza di un diritto rimasto finora inspiegabilmente
inespresso.
* Avvocato in Roma
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