Il 22 aprile scorso il Garante ha firmato un virtuoso protocollo d’intesa con
l’Ispettorato del lavoro. E pochi giorni dopo ha sanzionato un datore di
lavoro appena assolto dal Giudice penale.
Non c’è pace per il tema dei controlli a distanza, per i quali sono
competenti almeno tre uffici: l'Ispettorato del lavoro, il giudice penale e il
Garante per la protezione dei dati personali. Che possono adottare decisioni
diverse, con evidenti ripercussioni sulla certezza del diritto.
Fin dalla introduzione nel nostro ordinamento della norma che regola i
controlli a distanza sui lavoratori (l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori),
abbiamo assistito ad eccezionali disarmonie interpretative. Ed anche le
modifiche apportate dal Jobs Act nel 2015, non hanno sopito un dibattito
applicativo che trova ogni settimana una puntata nuova.
Inevitabile? Probabilmente sì! Parliamo infatti di un incrocio pericoloso,
visto che la violazione della norma può e deve esser rilevata:
- dall’Ispettorato del lavoro (competente per il rilascio dell'autorizzazione
all’uso di determinati strumenti e ad accertare eventuali usi illeciti);
- dal Giudice penale, quando un controllo illecito integra anche una fattispecie
di reato;
- dal Garante per la protezione dei dati personali, se si considera che i
trattamenti dei dati personali dei lavoratori effettuati in violazione di legge
si traducono in trattamenti illeciti con tutte le connesse conseguenze, anche
sanzionatorie.
E’ per questo che, quando il 22 aprile il Garante ha annunciato di aver
firmato un Protocollo d’Intesa con l’Ispettorato del lavoro ci
siamo trovati di fronte ad un’ottima notizia: a dispetto dei timori
manifestati da alcuni, il fatto stesso che almeno due dei tre protagonisti in
campo abbiano cercato delle forme di coordinamento intese ad una uniformità di
indirizzo, se da un lato certifica la persistenza del problema, dall’altro
può costituire uno strumento finalmente nuovo ed utile per fissare dei punti di
riferimento semi-certi.
Sarebbe un approdo importantissimo (e il tempo ci dirà se il Protocollo lo
saprà raggiungere), soprattutto in un momento in cui questa problematica trova
un innesco potenzialmente devastante nel ricorso generalizzato allo smart
working, spesso accompagnato dall’uso più o meno consapevole di
tecnologie che possono rappresentare una specie di campo d’elezione del
controllo a distanza del presente, e del futuro.
Eppure, è proprio il Garante ad avere appena dimostrato quanta sia ancora
lunga la strada di una compiuta e generalizzata uniformità di indirizzo: con l'enfasi
che è propria dei provvedimenti scelti per esser inseriti nella Newsletter
periodica, l’Autorità ha appena pubblicato (Newsletter 19.05.21) un pronunciamento di grande interesse
sotto molti punti di vista, che va qui richiamato per un punto specifico: il
datore di lavoro, in relazione a un applicativo informatico che, secondo i
lavoratori, violava l’art. 4, oltre ad esser chiamato davanti al Garante
mediante un reclamo, era stato anche denunciato penalmente.
Fra i vari argomenti portati all’attenzione dell’Autorità, l’azienda
aveva evidenziato un elemento che riteneva potenzialmente decisivo: il Giudice
delle indagini preliminari aveva disposto la archiviazione del procedimento
penale, presa di posizione che avrebbe dovuto avere un auspicato riflesso anche
nel procedimento davanti al Garante. E invece? Invece (al di là delle
dissertazioni più o meno fondate sul principio del ne bis in idem e sull’effettiva
portata del procedimento penale), il Garante ritiene violato l’art. 4 e, a
cascata, l'illecito trattamento, così da arrivare alla adozione di misure
correttive ed alla sanzione amministrativa di € 40.000,00 in danno dell’azienda.
Da un lato, il datore di lavoro è assolto; dall’altra, è condannato.
Da un lato, il Garante firma un avanzato protocollo d’intesa con l’intento
di coordinare; dall’altro ribadisce la volontà di esercitare le proprie
prerogative decisionali sul tema, anche ove confliggenti con quelle di un
Giudice penale.
Ne usciremo mai? Forse no!
* Avvocato in Roma
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