Responsabilità penale:
il provider è tenuto ad "attivarsi"?
di Daniele Minotti* - 05.05.03
Quando, nell'ottobre 2000, fu pubblicata la 2000/31/CE, "relativa a taluni aspetti
giuridici dei servizi della società dell'informazione, in particolare il
commercio elettronico", in molti, dopo una prima lettura, salutammo l'avvenimento
con un plauso in considerazione del fatto che, finalmente, si prendeva atto di
una realtà oramai consolidata per tutelare i consumatori e il commercio in
genere. Basti pensare alle indicazioni in tema di comunicazioni commerciali
(sollecitate o meno) e di trasparenza delle attività commerciali telematiche.
Qualche mese più tardi, mi fu proposto di scrivere un articolo sugli
aspetti penali dell'e-commerce e quella fu, inevitabilmente, l'occasione
per fare alcune prime e più meditate riflessioni sul testo della direttiva,
dunque sui prevedili sbocchi legislativi che la disciplina comunitaria avrebbe
potuto avere sul nostro ordinamento. Personalmente, avendo motivo di prevedere
possibili interventi nel penale, mi aspettavo una disciplina organica e
doverosamente tassativa.
Oggi, con la pubblicazione del decreto
legislativo 9 aprile 2003, n. 70 (il cui schema era, peraltro, già noto
da qualche tempo) mi devo dire deluso e, soprattutto, preoccupato soprattutto
per un motivo: con una tecnica di redazione legislativa di bassissimo livello,
il nostro legislatore si è limitato ad un vero e proprio "copia &
incolla" del (necessariamente generico) testo italiano della direttiva,
senza il benché minimo intervento di adattamento ai nostri principi
giuridici.
Sulle pagine di InterLex si è già ampiamente parlato di molti aspetti
critici del recepimento.(vedi Sotto torchio gli operatori della Rete). Il mio intento è soltanto - e molto più modestamente - quello di
approfondire l'analisi sotto il profilo delle possibili responsabilità
penali dei prestatori di servizi della società dell'informazione i cui
riferimenti, come è ormai noto, sono gli artt. 14-17 del decreto.
Siccome, però, tali disposizioni non fissano specifiche ipotesi di
responsabilità penali in capo a detti soggetti (sono previste sanzioni
amministrative, ma soltanto per altre violazioni), è, indispensabile guardare
alle regole generali del sistema penale, in particolare agli artt. 40, comma
2, e 110 c.p.
Partendo dalla seconda disposizione, riguardante il concorso di persone nel
reato, va osservato, in un primo sguardo d'insieme, che il decreto, agli
artt. 14, 15 e 16, solleva i prestatori da ogni responsabilità (diverse da
quelle amministrative fissate nel decreto) a condizione che essi non
intervengano sulle informazioni (i.e. i dati) da loro memorizzate o veicolate.
Previsione di mero valore riproduttivo, atteso che, anche senza il decreto, l'intervento
("causale") sulle informazioni (consapevolmente illecite) poteva
già condurre, per i principi generali di diritti penale, ad ipotesi di
concorso commissivo.
Esistono, però, previsioni particolari riguardanti le diverse attività
(in particolare di caching e hosting) che meritano la nostra attenzione.
Vediamole più da vicino.
Per le attività di caching, si pretende che il fornitore "agisca
prontamente per rimuovere le informazioni che ha memorizzato, o per
disabilitare l'accesso, non appena venga effettivamente a conoscenza del fatto
che le informazioni sono state rimosse dal luogo dove si trovavano
inizialmente sulla rete o che l'accesso alle informazioni è stato
disabilitato oppure che un organo giurisdizionale o un'autorità
amministrativa ne ha disposto la rimozione o la disabilitazione".
Per l'hosting, i limiti alla responsabilità sono ancora più complessi.
Per andare esente da ogni responsabilità è necessario che il fornitore: a)
"non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o
l'informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non
sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illiceità
dell'attività o dell'informazione"; b) "non appena a conoscenza di
tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente
per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso" Vedi anche Le trappole nei contratti
di hosting
di Cammarata).
Conclude l'éscalation di responsabilizzazioni l'art. 17 che, pur
fissando l'assenza di un obbligo generale di sorveglianza, stabilisce che il
prestatore è tenuto: a) ad informare senza indugio l'autorità giudiziaria o
quella amministrativa avente funzioni di vigilanza, qualora sia a conoscenza
di presunte attività o informazioni illecite riguardanti un suo destinatario
del servizio della società dell'informazione; b) a fornire senza indugio, a
richiesta delle autorità competenti, le informazioni in suo possesso che
consentano l'identificazione del destinatario dei suoi servizi con cui ha
accordi di memorizzazione dei dati, al fine di individuare e prevenire
attività illecite.
Il problema, per venire alle ipotesi di applicabilità dell'art. 40,
comma 2, c.p., è quello di verificare se, a fronte di tali regole, possa
dirsi sussistente, in capo al prestatore, un "obbligo giuridico di
impedire l'evento" (evento coincidente con il reato commesso da terzi),
vale a dire quell'obbligo "di garanzia" presupposto per l'applicazione
della norma citata ("Non impedire un evento, che si ha l'obbligo
giuridico di impedire, equivale e cagionarlo"), che, in combinazione con
il disposto dell'art. 110 c.p., fonda la punibilità del concorso per
omissione nel reato commissivo posto in essere da altri. Ciò perché, come
ricordato, il decreto in commento non prevede ipotesi di reato specifiche
(abbozza un precetto, ma tace su eventuali sanzioni di carattere penale),
mentre nel nostro ordinamento non è previsto un generico obbligo, in capo al
semplice cittadino, di denunciare o, addirittura, impedire la commissione dei
reati. In buona sostanza, non è punibile la mera connivenza.
Nessun dubbio sulla rilevanza della fonte dell'obbligo di garanzia: per
dottrina e giurisprudenza costante essa può consistere anche in una legge
extrapenale (tale è il decreto di cui trattiamo). Ma esiste veramente, sulla
scorta delle nuove disposizioni, un obbligo giuridico in capo al prestatore?
Al di là delle imprevedibili applicazioni giurisprudenziali (sappiamo tutti
che l'avvento delle nuove tecnologie ha sempre prodotto sentenze e
provvedimenti assai "creativi"), non c'era certo bisogno del
decreto per ritenere il prestatore tenuto ad obbedire agli ordini impartiti
dall'autorità amministrativa o giudiziaria. Sulla possibilità di
contestare, a determinate condizioni, delitti, ad esempio, contro l'autorità
delle decisioni giudiziarie nessuno penso possa ragionevolmente dubitare.
Ma, d'altro canto e scendendo nel dettaglio, è pur vero che, come
riportato sopra, il prestatore di servizi è tenuto, in taluni casi, ad
attivarsi in qualche modo.
Si tratta, però, di obblighi di garanzia sufficientemente precisi atti a
fondare ipotesi di responsabilità penale? La mia risposta è, in linea di
massima, negativa soprattutto se si condivide il più recente orientamento
dogmatico che, proprio a fronte dei possibili profili di indeterminatezza dell'istituto,
tendono a limitarne fortemente la portata che, in controtendenza, col decreto
ha trovato nuova (e forse imprevista) fortuna.
Si badi, inoltre, che le condotte richieste al prestatore devono essere idonee
ad impedire la commissione di reati e, comunque, possibili.
Con riferimento a quest'ultimo requisito, il problema, in ultima istanza,
è soltanto uno. Il decreto di attuazione, frutto, come visto, di un
recepimento acritico e pigro delle indicazioni sovranazionali, determina il
forte rischio che i prestatori siano ritenuti "presuntivamente" a
conoscenza dell'illiceità delle informazioni veicolate o memorizzate, che
possano intervenire e che, pertanto, siano posti di fronte a responsabilità
penali pur svolgendo un'attività che, per mole e "volatilità"
delle informazioni, notoriamente non consente certo di esercitare un controllo
capillare.
Ad impossibilia nemo tenetur. Speriamo che qualcuno si ricordi di tale
classico brocardo.
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