Parliamo ancora dei "contenuti" e della loro protezione. Se è vero,
come abbiamo scritto tante volte, che i contenuti sono i beni economici alla
base della società dell'informazione, la loro diffusione e la loro gestione
costituiscono un fattore essenziale della crescita economica e sociale.
Ma i contenuti da soli non bastano. Affinché il sistema economico funzioni, si devono aggiungere l'hardware e il software. Il primo viene
troppo spesso messo in secondo piano, con la scusa che costa sempre meno
(produrlo, perché i prezzi al consumatore per i gadget di moda sono
molto alti). Per il secondo il discorso è molto simile a quello dei contenuti:
infatti è il "carburante" che fa funzionare il tutto.Queste
elementari considerazioni dovrebbero indurre i legislatori e l'industria a trattare la
materia con molta attenzione e con grande lungimiranza. Si deve prendere atto
che siamo in una situazione nuovissima, in continua e travolgente evoluzione,
che pone nuovi problemi. E quindi richiede soluzioni altrettanto nuove.
Purtroppo non è così. In questo articolo citiamo alcuni esempi che mostrano
come l'industria metta in campo soluzioni che vanno in senso contrario a quello dell'evoluzione
delle tecnologie. Si aggiungono i legislatori che attuano pedissequamente i
"suggerimenti" della stessa industria (vedi Diritto
d’autore: una legge “particolare” e “concreta” di Andrea Monti).
C'è dunque il serio rischio che lo sviluppo venga frenato,
invece che accompagnato e favorito, in particolare per quanto riguarda lo
sfruttamento economico dei contenuti.
Sembra chiaro che la diffusione dell'internet e il progresso nelle telecomunicazioni
impongano modelli diversi di acquisizione e utilizzo dei contenuti. Essi sono a
disposizione dell'utenti in ogni luogo, in ogni momento e con moltissime
possibilità di accesso: banda larga, telefonia mobile, wi-fi eccetera.
L'industria cerca di promuovere con ogni mezzo questo mercato, creando per lo
più "bisogni" affatto nuovi, prodotti e servizi la cui utilità è
tutta da dimostrare. Per esempio, quante sono le persone che hanno realmente la
necessità di "scaricare" un brano musicale mentre passeggiano in un
giardino, o di vedere la televisione sul telefonino mentre viaggiano in tram?
Gli stessi sviluppi tecnologici danno anche la
possibilità di acquisire diversi tipi di contenuti senza pagare il prezzo richiesto
dall'industria. E quest'ultima mette in atto tutti i mezzi possibili, tecnologici e
legali, per contrastare questo fenomeno. Il che è giusto, in linea di
principio, ma viene fatto in modi che ledono i diritti dei cittadini e ne
limitano la libertà di scelta, con le conseguenze che si vedranno nel tempo e
che potrebbero tradursi in una crescente disaffezione verso molti prodotti
dell'industria dei media,
comprimendo l'evoluzione del mercato. Insomma, una politica suicida.
Un piccolissimo esempio. Un giovanotto cura un suo blog, nel quale pubblica
riflessioni, poesie, riproduzioni di quadri di autori contemporanei, spezzoni di
fumetti. Un bel giorno il blog viene oscurato senza preavviso dal provider, che
in una e-mail spiega che il suo "team investigativo" (!) ha
scoperto in quelle pagine la presenza di materiali protetti da copyright.
Ora è evidente che il giovane blogger non ricava alcun lucro da quelle
pubblicazioni e che nessun autore subisce una diminutio dei suoi
introiti, per il semplice fatto che nessuno è disposto a pagare un solo
centesimo per inserire qualche illustrazione nelle sue pagine di riflessioni
personali. Anzi, la pubblicità gratuita può convenire agli autori.
Si aggiunga che non c'è (ancora?) una legge che obblighi un provider a
istituire un "team investigativo" per spulciare tra le pagine dei suoi
clienti e a oscurarle di propria iniziativa, e a proprio giudizio, limitando
così la diffusione delle idee. Ma questo, purtroppo, è il risultato delle "campagne"
dell'industria,che nel maldestro tentativo di proteggere legittimi interessi,
criminalizzano comportamenti la cui pericolosità sociale, se esiste, è del
tutto secondaria.
Un altro esempio di protezione dei diritti in chiave autolesionistica: all'inizio delle Olimpiadi invernali di
Torino molti
commercianti del capoluogo piemontese si sono visti arrivare una multa per avere
esposto, senza autorizzazione e senza pagare i diritti, il simbolo con i cinque
anelli. Il bello è che lo stesso Comune aveva invitato i commercianti ad
allestire le vetrine in tema con il grande evento sportivo, usando anche il simbolo
dei giochi. Che però, a quanto sembra, è un marchio registrato del Comitato
olimpico internazionale: allora, pagare!
Ora potremmo discutere dell'universale notorietà del simbolo con i cinque cerchi,
tale forse da giustificare una qualifica di "pubblico dominio" e che
comunque trarrebbe vantaggio da una licenza tipo Creative Commons, per stimolarne la
diffusione, controllandone nel contempo l'uso. Certo è che i risultati di questa azione
sono da una parte un minore effetto promozionale dell'evento, e dall'altra un'immagine
negativa del CIO. Alla fine dei conti, la rivendicazione dei "diritti"
determina un
danno molto più grave del mancato introito di cifre che pochi
sarebbero disposti a pagare: il copyright si ritorce contro il suo titolare.
Andiamo avanti con una notizia recente: Microsoft ha perso una causa per violazione di brevetti
e deve pagare un cospicuo risarcimento. Giusto. Ma quello che non è giusto che
la rimozione degli effetti delle violazioni sia "a cura e spese" dei
clienti, che il software lo hanno già pagato profumatamente (vedi Microsoft
viola i brevetti e il cliente paga di A. Gelpi e A. Sammaruga).
A proposito di Microsoft, dovremmo parlare diffusamente (e lo faremo presto) del
futuro sistema operativo,
che limiterà in misura incredibile il diritto dell'utente di installare il
software che gli serve o di ascoltare la musica o vedere i film che gli
piacciono. Il tutto con forme di controllo invasive, basate su feroci sistemi di
DRM. Risultato? In molti
eviteranno di acquistare il nuovo sistema e si rivolgeranno all'open source!
Insomma, il sistema dei "diritti" finirà con l'uccidere se stesso,
se non si troveranno forme di diffusione per le quali gli utenti trovino
naturale pagare un prezzo equo, senza essere sottoposti a limitazione prive
di giustificazioni tecniche (tipo: il tale brano può essere ascoltato solo
sulla tale macchina e solo per un certo numero di volte), e senza subire
controlli, limitazioni della libertà personale e rischi di azioni legali che
non trovano fondamento nei principi del diritto.
Ancora, potremmo aggiungere i legami artificiosi tra diritti sui dei contenuti e
gestione delle reti di telecomunicazioni, che comportano altre limitazioni alla
libertà di scelta degli utenti (vedi Contenuti:
i “triplogiochisti” della banda larga di Paolo Nuti).
Per concludere, ecco la conferma che un sistema operativo Microsoft acquistato
in bundle con un computer non può essere trasferito su un'altra macchina
se la prima va fuori uso. E occorre chiedere il permesso a Bill Gates per
continuare a usarlo dopo aver cambiato la piastra madre, il processore o il
disco rigido. La legittimità di queste regole è dubbia (vedi Illegittimità
delle limitazioni alla circolazione del software di Carlo Piana), ma
andate a spiegarlo alla Poltel o alla Guardia di finanza...
Caro Bill, ho tre o quattro diverse versioni di DOS, un Windows 3.11, due 95 e due
98, tutti con la regolare "licenza d'uso", pagata fior di quattrini.
Non mi servono più. Te li rimando, e tu restituiscimi i soldi.
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