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Le relazioni - 13

La firma digitale ritrova se stessa. Forse...

di Paolo Ricchiuto* - 26.05.05
 
E' proprio di questi giorni la notizia della pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del Codice dell'amministrazione digitale (decreto legislativo 7 marzo 2005 n. 82 - G.U. 16.05.05 Suppl. Ord. n.93/L).
Giunge quindi ad un punto importante - non si può certo dire al punto finale - una corsa lunga e faticosa, caratterizzata da blocchi di partenza obliqui (la legge delega L. 229/03), da entrate a gamba tesa (il parere del Consiglio di Stato 07.02.05), da premi della montagna (l' approvazione dello schema del Codice da parte del Consiglio dei Ministri nella seduta del 04.03.05, e cioè sei giorni prima che scadesse la delega), da un passaggio in una... galleria segreta (le settimane intercorse dall'approvazione alla pubblicazione) ed infine dal taglio del traguardo di tappa, con il formale inserimento in gazzetta del decreto legislativo.

I problemi che il nuovo apparato normativo pone all'interprete sono tantissimi, molto complessi, e , soprattutto in sede divulgativa, richiederebbero una cautela eccezionale.
Ha sorpreso molti, quindi, un articolo comparso su Il Sole 24 Ore del 19 maggio ("Firma digitale più debole" di G. Finocchiaro) nel quale, al di là della perentorietà usata dal titolista, trovano spazio alcune affermazioni che fanno riflettere e costituiscono l'occasione per tentare di fare ancora una volta il punto della situazione.

Riporto, testuale dall'articolo: "Oggi - cioè prima delle modifiche introdotte dal Codice - si ritiene che anche il documento informatico con firma elettronica integri la forma scritta".
Si ritiene ?

Basta rileggere le pagine di InterLex dei mesi scorsi, nonché la quasi totalità degli interventi pubblicati in varie sedi a seguito della improvvida modifica introdotta dal DLgs 10/02 (improvvidamente confermata dal DPR 137/03), per verificare come la dottrina abbia unanimemente sottolineato la pericolosità di una norma che associasse il requisito della forma scritta all'utilizzo di sistemi di sottoscrizione elettronica - chiamiamoli così, per capirci - del tutto inaffidabili.
Le sconcertanti decisioni di qualche tribunale sulla assimilabilità di una e-mail ad una scrittura privata (mai motivate perché assunte in sede monitoria), e le per nulla convincenti argomentazioni portate da qualcuno per sostenere i grandi e presunti vantaggi che sarebbero potuti derivare da quella norma (l'ex art. 10 co. 2 DPR 445/00) e dalla estensiva interpretazione della stessa, dunque, non possono che esser considerati come posizioni assolutamente minoritarie.

Altro che: "si ritiene"!

Ed allora se vogliamo provare a capire, ed a far capire, quale sia lo stadio di sviluppo del percorso normativo ed esegetico in cui si colloca il Codice, credo che possiamo essere quasi tutti d'accordo nell'affermare che
la opzione normativa di associare al documento informatico sottoscritto con firma elettronica il requisito della forma scritta, era una scelta ritenuta dai più tecnicamente, giuridicamente e strategicamente sbagliata;
più che opportuna, pertanto, deve esser considerata la nuova disposizione contenuta nell'art. 20 co. 2 del Codice (già art. 17 dello schema approvato il 04.03.05) che, facendo giustizia di quella aberrazione, ha riportato la disciplina della forma del documento informatico entro i giusti confini tratteggiati dal legislatore del 1997, attribuendo la forma scritta solo e soltanto al documento informatico sottoscritto con firma digitale (o con altra tipologia di firma elettronica qualificata).

Ciò dovrebbe mettere a tacere definitivamente, senza strani rigurgiti, i fans dell'acquisto di un immobile tramite scambio di e-mail (esito forse mai troppo ponderato dai fautori della tesi qui avversata, evidentemente intangibili al timore che il loro peggior nemico si doti di una casella di posta elettronica a loro nome, per poi trasmettere una perfettamente valida proposta d'acquisto di un appartamento del valore di un milione di euro che, una volta accettata anche nella stessa forma, avrebbe comportato, a norma del vecchio art. 10 DPR 445/00, il trasferimento della proprietà dell'immobile ed il conseguente ...obbligo di pagare un milione di euro, obbligo da far valere magari presentando un ricorso per decreto ingiuntivo avanti l'Autorità giudiziaria di Cuneo!).

Questo per quanto attiene alla forma.

Passiamo poi all'altra affermazione, quella più di impatto, secondo la quale la disciplina introdotta dal Codice all'art. 21 (già art. 18 dello schema approvato il 04.03.05) comporterebbe un "indebolimento" della firma digitale.
Come sappiamo, la norma segna il ritorno alla disciplina antecedente al maledettissimo DLgs 10/02, e toglie di mezzo ogni riferimento alla querela di falso, conformandosi quindi al vero spirito della norma madre di tutta la disciplina (l'art. 15 co. 2 della L. 59/97) che aveva previsto semplicemente la validità e rilevanza dei documenti formati con strumenti informatici, e dunque la mera equiparazione, e non... super-dotazione, del documento informatico rispetto alla scrittura privata tradizionale.

Anche sotto questo profilo, è sufficiente ripercorrere le argomentazioni che avevano evidenziato la illegittimità costituzionale e la inopportunità della creazione di questo fantomatico istituto della "scrittura privata informatica" (vedi Un messaggio e-mail non è "prova scritta" di Manlio Cammarata e Enrico Maccarone, Il magistrato: scritto e trascritto, ma non sottoscritto di Gianni Buonomo e il mio Gli effetti probatori del documento informatico) , per attestare come le novità del Codice, invece che esser accompagnate da una informazione sostanzialmente catastrofista, andrebbero salutate come il ritorno della disciplina in un perimetro di correttezza istituzionale e di giusto bilanciamento degli interessi in gioco.

Il messaggio da lanciare sugli organi di divulgazione insomma, non è e non deve essere, a mio parere, che la firma digitale si è indebolita, quanto piuttosto che la firma digitale ha finalmente ritrovato se stessa.

Colgo infine l'occasione per alcune riflessioni sull'altra grande innovazione contenuta nel Codice, e cioè a dire l'ultimo capoverso dell'art. 21 co. 2, secondo il quale "l'utilizzo del dispositivo di firma si presume rinconducibile al titolare, salvo che sia data prova contraria", norma già foriera di un interessantissimo ed appassionante dibattito (vedi E' utile la presunzione di utilizzo del dispositivo di firma di Luigi Neirotti, Il disconoscimento della firma tra "diritto" e "fatto" di Manlio Cammarata e Effetti probatori: si torna ai principi del processo civile di Gianni Buonomo).
Si tratta, come unanimemente scritto, di un correttivo inteso a mitigare gli effetti di un puro e semplice recepimento in ambito virtuale della disciplina dettata dall'art. 2702 c.c. per il mondo fisico.

La logica, in sintesi, è questa: di fronte al disconoscimento della paternità della sottoscrizione, non possiamo onerare colui che intende far valere in giudizio il documento sottoscritto con firma digitale di una prova impossibile, consistente nel fatto che il sottoscrittore sia colui che ha effettivamente utilizzato il dispositivo di firma; se è vero, come lo è, che nel giudizio di verificazione gli oneri probatori incombono su chi intende far valere il documento in giudizio, costui non potrà esser gravato della probatio diabolica circa il materiale utilizzo del dispositivo di firma da parte di chi appare come il sottoscrittore e che, ciò nonostante, stia tentando di ciurlare nel manico, opponendo uno strumentale disconoscimento (vedi il già citato articolo di Neirotti).

Ecco da dove nasce l'idea, quindi, di creare una presunzione di utilizzo del dispositivo che ponga l'apparente sottoscrittore in una posizione volutamente più scomoda, non potendosi lo stesso limitare a disconoscere la sottoscrizione, ma essendo tenuto a corredare il disconoscimento con una prova positiva relativa al fatto che il dispositivo sia stato utilizzato da altri, e non da lui, così da spezzare il legame che lo astringe alla scrittura.
Ora, se questa è la genesi della norma, mi sembra di poter dire che, per una serie di motivi, la stessa presenti delle tare logiche, ancor prima che giuridiche, che la rendono sotto un certo punto di vista inutile, e sotto altra prospettiva incoerente con il quadro normativo nel quale si va a collocare.

Mi spiego meglio, partendo da un assunto di fondo: siamo tutti d'accordo sul fatto che, dal punto di vista tecnico, non sia possibile dimostrare che il documento informatico sottoscritto mediante utilizzo di un dispositivo di firma rilasciato a Caio sia stato invece sottoscritto con il dispositivo di firma di Tizio. La partita dell'accertamento, dunque, si gioca su altri piani, uno dei quali (ma non l'unico) è quello della prova dell'abusivo utilizzo da parte di un terzo del dispositivo di firma di Caio.

Ciò detto, proviamo per un attimo a fare finta che l'art. 21 si chiuda sic et simpliciter con il richiamo all'art. 2702 c.c.(che non esista, cioè, l'inciso in commento). Cosa accade realmente davanti ad un tribunale?

Io che produco un documento sottoscritto con firma digitale di Caio, a fronte del suo disconoscimento, devo proporre una istanza di verificazione, ed incomberà su di me l'onere probatorio. Ma qual è l'oggetto di questo onere? Dovrò certamente dimostrare che la chiave pubblica rilasciata a Caio corrisponde alla chiave privata assegnatagli dal certificatore che lo ha identificato. Devo fare altro? A mio parere assolutamente no! Non capisco, infatti, su quale argomento tecnico-giuridico possa fondare la diversa tesi, secondo la quale sarei anche onerato di dimostrare che è stato proprio Caio ad utilizzare il dispositivo di firma.

A ben vedere infatti, a mio modestissimo avviso, questa tesi più che su rigorosi presupposti processuali appoggia su una preoccupazione sostanziale, e cioè evitare che Caio, in applicazione dell'art. 2702 c.c. nei termini indicati, dopo aver opposto un disconoscimento e dopo esser stato tirato dentro un giudizio incidentale di verificazione, possa ritrovarsi privo di armi di fronte all'accertamento, tutto tecnico, della corrispondenza tra chiave pubblica e chiave privata.

Ma, domando, siamo sicuri che la dinamica sia questa? Che cioè, accertata la corrispondenza tecnica tra chiave pubblica e chiave privata, Caio non abbia strumenti per far virare in suo favore il processo? In realtà, se si esamina con attenzione l'oggetto del giudizio di verificazione, deve tenersi in debito conto il fatto che il sottoscrittore apparente (nel nostro caso Caio) non partecipa all'istruttoria come se fosse un convitato di pietra. Il fatto che l'onere della prova non incombe su di lui, cioè, non significa che gli sia inibita l'attività difensiva. Ben può Caio, dunque, pur non essendo astretto da alcun onere probatorio, articolare sue deduzioni istruttorie, intese a fornire una prova che lo sleghi dal documento. E ben può dunque, ad esempio, chiedere di essere ammesso a dimostrare l'abusivo utilizzo del suo dispositivo di firma, prova di fronte alla quale il giudice che sia chiamato a definire il processo di verificazione, pur in presenza della dimostrazione della corrispondenza tra chiave pubblica e chiave privata, potrà dichiarare che in realtà il disconoscimento di Caio era fondato.

Ed allora, se così stanno le cose, a cosa serve l'inversione dell'onere probatorio sulla riconducibilità dell'utilizzo del dispositivo al sottoscrittore? La mia risposta è: non serve a nulla, perché le regole processuali già contemplano gli strumenti che mettono il sottoscrittore in condizione di uscire vittorioso dal giudizio di verificazione, e ciò pur in presenza di un accertamento tecnico relativo al fatto che quel documento sia stato sottoscritto mediante utilizzo (abusivo) del suo dispositivo di firma.

Ma, dicevo, la norma non mi sembra solo inutile per i motivi anzidetti, bensì anche incoerente con il quadro di riferimento. Ecco il perché:

a) se si è scelto (come era auspicabile) il superamento dell'art. 10 DPR 445/00 ("piena prova fino a querela di falso"), a tanto si è arrivati non solo per i gravosi appesantimenti che il giudizio di falso porta con sé (riserva di collegialità, intervento del PM etc.), ma anche, andando alla sostanza dell'attività istruttoria, per evitare di far ricadere ogni onere probatorio su chi utilizza la firma digitale. Prevedere la presunzione di utilizzo del dispositivo di firma, ed onerare il sottoscrittore della prova dell'abusivo utilizzo (con l'automatico accertamento, in mancanza, della riconducibilità dell'utilizzo al titolare del certificato) fa rientrare dalla finestra quanto il legislatore aveva opportunamente espulso dalla porta;

b) a norma dell'art. 31 del Codice (già art. 29 dello schema approvato il 04.03.05) il titolare del certificato di firma è tenuto a custodire ed utilizzare il dispositivo di firma con la diligenza del buon padre di famiglia. Evidente, sotto questo punto di vista, la distonia tra una forma-base di diligenza nella custodia, e gli effetti pesantissimi connessi alla presunzione di utilizzo

A ciò si aggiunga un problematico rapporto con la legge delega. Se è vero, infatti, che l'art. 10 L. 229/03 contemplava un criterio di delega assolutamente obliquo (incaricando il Governo di "graduare la rilevanza giuridica e l'efficacia probatoria dei diversi tipi di firma elettronica"), dall'altro lato non si può a mio parere dimenticare l'architrave sul quale fonda tutto l'impianto normativo, che è quello, lo ripeto, della "equiparazione" tra documento informatico e scrittura privata (art. 15 L. 59/97), equiparazione che viene vistosamente meno in presenza di una presunzione sconosciuta alle vigenti disposizioni del codice civile e del codice di procedura civile.

Come è noto, la partita non è affatto chiusa qui. La stessa legge delega prevede, all'art. 10 co. 3, la possibilità che il Governo intervenga ulteriormente sulla materia entro 12 mesi (termine che decorre dal 09.03.05 - 18 mesi dopo l'entrata in vigore della delega - e che viene dunque a scadenza nel marzo del 2006).

C'è dunque tempo per ulteriori, e forse opportuni ripensamenti.
 

* Avvocato in Roma

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