Per l’ennesima volta il Garante dei dati personali è intervenuto nei
confronti dei mezzi di informazione, impedendo la diffusione di un servizio
realizzato dalla trasmissione “Le Iene”. Il “blocco” è stato motivato
dalla asserita “violazione della privacy” dei parlamentari intervistati, che
a loro insaputa erano stati sottoposti a un test che rivelava la recente
assunzione di alcune sostanze stupefacenti. Si tratta di una decisione
sbagliata, pericolosa, ma anche rivelatrice di cosa sia diventata la legge sui
dati personali.
Andiamo per ordine.
Come si è appreso guardando la puntata nella quale sarebbe dovuto andare in
onda il servizio incriminato, le modalità di raccolta dei dati sulla recente
assunzione di droghe da parte degli intervistati era del tutto anonima. In altri
termini, nessuno, nella redazione de Le Iene, sarebbe stato in grado di
collegare i tamponi utilizzati per raccogliere i campioni organici con l’identità
dei singoli interessati. Questo è - palesemente - un trattamento di dati
anonimi (o anonimizzati) alla fonte e come tale non sottoposto alle “cure”
del DLgv 196/03. Il Garante, quindi, è intervenuto ben oltre i poteri (pur
ampi) che la legge gli attribuisce.
In realtà, e veniamo al secondo aspetto, il provvedimento del Garante non è
viziato per “eccesso” ma per “carenza di potere” perché ha limitato
inamissibilmente la libertà di manifestazione del pensiero che non è materia
disciplinata dalle direttive europee sul trattamento dei dati personali e dai
relativi recepimenti nazionali. Ma il Garante non se ne è curato perché
ritiene suo compito “proteggere la privacy” e dunque pretende di avere voce
in capitolo anche sull’attività dei mezzi di informazione (già regolata
dagli ordinamenti professionali, dal codice civile e da quello penale).
Comincia a produrre i suoi frutti guasti l’equivoco semantico che per
dieci anni ha caratterizzato la disciplina del trattamento dei dati personali,
strumentalmente qualificata come “legge sulla privacy” e che ora consente,
nell’assuefazione generale, a un organo diverso dalla magistratura di
attribuirsi un vero e proprio potere censorio.
La legge 675/96 non era, e il DLGV 196/03 non è “legge sulla privacy”.
Il trattamento dei dati personali fa riferimento alla necessità di adottare
adeguate regole di gestione delle informazioni. La tutela giuridica dello spazio
individuale è una cosa radicalmente diversa che solo incidentalmente interseca
gli aspetti relativi al trattamento dei dati personali. Pertanto non si può
invocare il DLGV 196/03 per “spegnere l’informazione” con la scusa di “proteggere
la privacy”.
Viceversa, e curiosamente, il Garante non ha dimostrato altrettanta “sollecitudine”
verso i grandi “accumulatori di dati” privati e pubblici che, dopo essere
stati lasciati indisturbati per anni e anni, solo ora sono stati “gratificati”
da un bel comunicato (vedi Otto
anni di abusi e il Garante emette un comunicato).
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