Si avvicina il 30 giugno, temine ultimo per la predisposizione del
"documento programmatico sulla sicurezza", imposto dall'art. 34 del "codice della privacy"
(decreto legislativo 196/03). Ed è fibrillazione generale.
Titolari ancora una volta sull'orlo della crisi di nervi, società di
informatica che propongono "kit" che dovrebbero risolvere ogni
problema come pomate miracolose, consulenti (non sempre all'altezza del compito)
che corrono di qua e di là senza sosta. Ci si mette persino il Garante che, rendendosi
conto dei problemi aperti dalla normativa, propone una bozza di "prime
riflessioni" che avrebbe fatto meglio a preparare con un anno di anticipo.
E sollecita contributi, con quella che sembra tanto una richiesta di aiuto.
Tutto questo era prevedibile. D'accordo che le nuove norme sulle
"misure minime" sono più sensate delle precedenti, d'accordo che
l'insieme delle disposizioni sulla tutela dei dati personali è meno confuso
della congerie di testi che aveva seguito la legge 675/96 (vedi La semplificazione delle regole nel codice della privacy
di Giuseppe Santaniello). Ma al momento di mettere in pratica il punto 19 del disciplinare
tecnico delle misure minime di sicurezza le difficoltà appaiono in tutta la loro
evidenza.
Tanto per incominciare: chi è tenuto a predisporre il DPS? La prima lettura
delle norme genera il dubbio che ci sia almeno un'incongruenza tra l'art.
34 del 196/03 e il punto 19 dell'allegato. Affrontando il testo con attenzione si giunge facilmente alla conclusione che la misura riguarda solo i
titolari di trattamenti di dati sensibili e giudiziari (vedi Il DPS e le copie delle "credenziali":
leggiamo bene le norme di Luigi Neirotti).
In realtà il problema è, come si suol dire, "a monte". E' nelle
scelte definitorie del legislatore, che ha chiamato "documento
programmatico" quello che per i tecnici è semplicemente il "piano
della sicurezza". Un documento programmatico è di per sé un progetto
volto a futuri sviluppi, non una descrizione dello stato attuale (eventualmente
con le previste evoluzioni), come richiedono le norme.
Ed è questo il primo punto critico. Il buon senso vorrebbe una sequenza logica:
1. il documento programmatico; 2. l'adozione delle misure previste dal documento
programmatico; 3. la descrizione del risultato finale in un documento di
sintesi. Quest'ultimo, nello spirito delle legge, dovrebbe costituire
l'adempimento finale. Ma se leggiamo l'espressione "documento
programmatico" come "documento di sintesi" emerge un secondo
punto critico, l' equivoco di fondo che sta determinando tanti problemi
nell'approssimarsi della data della scadenza. Infatti l'accento è stato posto
sul documento (che è soltanto una delle numerose misure obbligatorie), invece
che sulla sicurezza come presupposto per la liceità dei trattamenti. In
sostanza, con la scadenza del 30 giugno, più che il documento dovrebbero essere
pronti e operativi tutti gli accorgimenti necessari per assicurare la reale
sicurezza dei dati. E non è una differenza di poco conto. In sostanza, quello
che ogni titolare di trattamenti avrebbe dovuto fare fin dalla pubblicazione del
decreto legislativo 196/03, è convocare i tecnici interni o i consulenti
esterni per "mettere a norma" le condizioni di sicurezza dei sistemi
informatici. Chi ha provveduto per tempo a questa fondamentale necessità, oggi
non ha problemi per la redazione del cosiddetto "documento
programmatico".
Ma chi pensa di mettersi al sicuro da ogni rischio (civile e penale) con
l'adempimento di una formalità, rischia grosso. E il rischio è ancora più
forte se ci si affida a improbabili "kit" o a consulenti che si sono
scoperti tali solo all'ultimo momento. La protezione dei dati personali è
senza dubbio una "qualità" di tutti i processi informativi, in ambito
pubblico come in ambito privato. L'importanza di questa qualità, a sette anni
dalla prima legge in materia, fa parte ormai della cultura diffusa. E questo è
un bene di enorme valore.
Ma quello che ancora non funziona è il modo in cui si passa dai principi alla
loro applicazione pratica. L'approccio formalistico-burocratico della legge 675
non è cambiato con il codice del 2003. Anche se i principi sono formulati in
maniera più chiara e convincente, la loro applicazione resta affidata a un
monumentale complesso di regole minuziose, pedanti pandette che vorrebbero
regolare ogni dettaglio, dimenticando il principio fondamentale dell'astrattezza
e della genericità delle norme giuridiche (che costituisce la vera differenza
con le norme tecniche). La sostanza dell'interpretazione della norma è nel
confronto tra la fattispecie concreta e la norma stessa. Se la norma è
abbastanza astratta e generica, il lavoro dell'interprete può essere faticoso,
ma prima o poi assicura un risultato convincente. Se la normativa è molto
dettagliata, è necessario trovare una corrispondenza specifica tra la
fattispecie concreta e la previsione del legislatore. E siccome il legislatore
non può prevedere tutto, capita inevitabilmente che non si riesca a
identificare la disposizione che si adatta al caso in esame. Con le conseguenti
incertezze sul da farsi e le soluzioni più fantasiose. Prendiamo, per
esempio, il recente provvedimento sulla
videosorveglianza. Un problema serio, perché si devono conciliare opposte
esigenze della protezione della riservatezza e della sicurezza dei cittadini. E'
davvero necessario elencare una per una tutte (tutte?) le possibili situazioni
in cui viene usato un sistema di controllo visivo a distanza? Non sarebbe meglio
enunciare con chiarezza le norme generali alle quali deve attenersi il titolare
del trattamento e lasciare poi al giudice il compito di valutare, di fronte a
una contestazione, se le norme sono state rispettate? Spostando l'attenzione
dalle questioni sostanziali al formale rispetto di regole specifiche si
rischiano risultati stravaganti: come quello, spesso citato, che si è
verificato in un caso in cui sono state esaminate le riprese fatte in una banca
nel corso di una rapina: si vedevano solo i piedi dei malviventi, perché la
telecamera era stata puntata verso il basso "per rispettare la privacy dei
clienti". Così, ponendo al centro dell'attenzione il documento
programmatico sulla sicurezza, invece che puntare sulla sicurezza reale, si
rischia una sicurezza "fatta coi piedi". Ovvero, come scriveva Andrea
Monti in un articolo dell'anno scorso,
una "sicurezza di carta".
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