Internetfobia, un malanno sempre
più grave
di Manlio Cammarata - 07.04.99
Nel gergo dell'internet si chiama mail
spamming l'invio di messaggi non richiesti (e di solito non graditi) a
lunghe liste di indirizzi. Un'attività che si cerca di frenare in ogni modo, ma
che non provoca danni irreparabili ai sistemi informatici.
La stessa attività è stata svolta, per alcuni giorni nelle scorse settimane,
da un virus. Un virus da quattro soldi, che non attacca i programmi e che non
danneggia i dati. Manda solo un pacco di e-mail, che si moltiplicano
automaticamente ad ogni passaggio, sul modello delle famigerate "catene di
S. Antonio" (un'esauriente descrizione del programma si trova, fra l'altro,
in una pagina
del sito della Microsoft). E' stato
prontamente segnalato, analizzato e neutralizzato dai produttori di antivirus.
Il "rischio virus" non preoccupa più
nessun utente di PC che abbia l'accortezza di dotarsi di un buon programma
antivirus e che si preoccupi di aggiornarlo con regolarità, anche perché oggi
questi software non solo riconoscono al volo i programmi più noti, ma sono
capaci di segnalare le attività sospette anche quando non identificano una
"firma" già schedata.
Però tutto questo non basta ai giornalisti della
carta stampata, che appena sentono o leggono la parola "internet" sono
colti da una crisi di internetfobia
(nota sindrome di tipo persecutorio), che scatena una reazione di attacco, fatta
di titoli allarmistici e ampi servizi in cui si descrivono danni e malanni
causati dall'uso del computer.
Se si facesse un'analisi statistica delle notizie che la stampa pubblica in
materia di tecnologie dell'informazione, con ogni probabilità si vedrebbe che
sono molto più numerose le informazioni negative di quelle positive. Non si
risponda che il cane che morde l'uomo non fa notizia, mentre fa notizia l'uomo
che morde il cane, perché "notizie" positive interessanti sulle
tecnologie dell'informazione e sull'internet ce ne sarebbero in quantità. Tanto
per fare un esempio, nelle pagine e pagine che i giornali dedicano in questi
giorni alla guerra nei Balcani, nessuno ha pensato di pubblicare un piccolo
riquadro con un elenco di siti internet sui quali i lettori più attenti possano
trovare informazioni e commenti di prima mano. Solo "Melissa" ha
bucato la guerra mediatica.
Questa informazione distorta e - forse
inconsciamente - tendenziosa provoca gravi danni, perché genera diffidenza e
allontana un grande numero di potenziali utenti dall'uso del computer e
dell'internet, aumentando il ritardo del nostro Paese nel cammino verso la
"civiltà dell'informazione".
Lo dimostra il messaggio
allarmato di un nostro affezionato
lettore, che chiede di cancellare il suo abbonamento a InterLex perché teme che
l'e-mail di aggiornamento contenga il virus "Melissa". Egli non sa che
un semplice messaggio di posta elettronica non può contenere virus - per
ragioni tecniche che non è il caso di spiegare qui - ma è stato terrorizzato
dalle informazioni diffuse dalla stampa.
La sua ignoranza è scusabile, considerando la scarsa alfabetizzazione degli
italiani in materia di tecnologie, ma proprio per questo l'informazione
"generalista" dovrebbe porre la massima attenzione sul modo di porgere
notizie che possono generare allarme, oltre che sulla scelta degli argomenti da
trattare.
Sembra che tutti - o quasi - i giornalisti che
"capiscono di internet" siano stati rinchiusi nelle redazioni
telematiche, mentre l'informazione cartacea sia stata affidata a persone che non
conoscono bene la materia e temono di esserne travolti. E' grave, perché (per
quanto pochi) sono assai più numerosi gli italiani che leggono i giornali di
quelli che usano la rete.
Il caso di "Melissa" è solo l'ultimo
di una lunga catena di notizie allarmanti che portano il marchio inequivocabile
dell'internetfobia. Risale al 1995 lo studio di uno psichiatra americano sul
presunto Internet addiction disorder, al quale un anno dopo un
quotidiano italiano dedicò un intero supplemento: una sindrome di assuefazione
all'uso del computer simile a quella causata dalle droghe. Ebbene, poco tempo fa
alcuni giornali hanno presentato come una novità la stessa malattia,
"scoperta" questa volta da un italiano, mentre altri hanno attribuito
a una dottoressa americana l'osservazione che si tratta di una "dipendenza
comportamentale" e non di una tossicodipendenza.
Ma tutti questi studiosi non considerano un fatto: un individuo che, senza
esservi costretto, passa la maggior parte del suo tempo davanti al PC, forse ha
in partenza qualche rotella che non gira bene.
Ancora, ecco la recentissima notizia del "mal di computer": cefalee,
disturbi visivi e dolori cervicali per chi usa il computer almeno venti ore alla
settimana. Normale, soprattutto se lo schermo non è adeguato e la postura non
è corretta. Ma di questo non si tiene conto, la notizia è buona per
intervistare un noto cantautore (che c'entra?) e fargli sentenziare che "l'ipersocietà
ci distrugge"!
Mentre sarebbe opportuno chiedersi se la stessa ricerca è stata fatta su
soggetti che passano lo stesso tempo, nelle stesse condizioni, su una macchina
per cucire, e con quali risultati...
In tutto questo ha guadagnato assai meno spazio
il resoconto di una ricerca compiuta dall'Osservatorio Internet dell'università
Bocconi, secondo il quale "Internet è socializzante e non fa aumentare la
depressione", almeno in Italia.
Sulla base della regola giornalistica dell'uomo e del cane, questa sì che è
una notizia!
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