Funziona o non funziona? L'aspetto
legale
di Manlio Cammarata - 26.09.02
Finalmente sono chiari molti aspetti del "baco" della firma
digitale che abbiamo affrontato una settimana fa (vedi Tra i
"bachi" delle norme e quelli dei programmi). Molti, ma non tutti,
perché dobbiamo mettere meglio a fuoco il problema della rispondenza dei
software di firma digitale attualmente in circolazione con le disposizioni del
testo unico sulla documentazione amministrativa e con le regole tecniche. Non è
una questione di poco conto, perché se non sono soddisfatti tutti i requisiti
della firma digitale non si possono avere documenti "validi e rilevanti a
tutti gli effetti di legge", come afferma la norma originaria dell'art. 15, comma 2, della L. 59/97.
E' bene sottolineare che il problema non è solo di DiKe: con ogni
probabilità, tutti i programmi per la firma digitale qualificata oggi in
circolazione si comportano nello stesso modo. Lo abbiamo direttamente verificato
su PosteCert del certificatore Postecom (le Poste Italiane) e su DigitalSign di
CompEd, una software house di Genova. E sono emersi altri aspetti critici, come
vedremo tra poco.
La puntuale risposta che InfoCamere ha dato alle
nostre osservazioni aiuta a inquadrare la questione, sia perché rivela che il
problema era noto sia perché contiene alcune affermazioni non condivisibili,
che costituiscono appunto il nucleo del "difetto".
Il DiKe - scrive InfoCamere - si comporta correttamente fornendo un
esito positivo della verifica di firma in quanto non vi è stata alcuna rottura
dell'integrità del documento (unica evenienza che potrebbe far supporre una
modifica, tanto che le poche norme in materia si riferiscono sempre alla
"integrità" del documento, e non alla immodificabilità dello stesso).
In questo fondamentale passaggio ci sono due equivoci sui termini: il primo è
che il software funziona perfettamente verificando non l'integrità del
documento in senso giuridico, ma solo quella del file ("evidenza
informatica", secondo le definizioni
delle regole tecniche) sul quale è stato calcolato l'hash e quindi generata la
firma stessa.
Insomma, si afferma che il software funziona perché verifica l'integrità
dell'evidenza informatica, che non ha alcun valore legale ed è cosa
diversa dal documento informatico, legalmente valido se ricorrono le
condizioni previste dalla normativa.
Come spiega Corrado Giustozzi (Funziona o non
funziona? L'aspetto tecnico) e come abbiamo dimostrato praticamente una
settimana fa (La firma è sicura, il documento no di
Andrea Gelpi), un file firmato digitalmente non cambia anche se ci sono
contenuti dinamici (e quindi la verifica dà esito positivo), ma può cambiare
il documento che viene presentato all'utente.
Il documento informatico, dice la definizione dell'art. 1 del TU sulla documentazione
amministrativa, è la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati
giuridicamente rilevanti. "Rappresentazione", appunto, ciò che si
vede: per la legge non rileva "quello c'è dietro", ma solo ciò che
viene rappresentato. Non a caso la parola "documento" viene dal
latino docere (mostrare, indicare).
Il secondo equivoco terminologico è questo: "integrità" e "immodificabilità"
del documento non sono qualità indipendenti, perché se c'è una
modificabilità non ci può essere la sicurezza dell'integrità della
rappresentazione. Se la firma digitale deve consentire di verificare la
provenienza e l'integrità di un documento informatico (ancora l'art.
1 del TU), è evidente che il documento non deve essere modificabile
senza che la procedura di verifica se ne accorga.
In sostanza, se la firma digitale non consente di verificare l'integrità di un
documento informatico, così come viene rappresentato all'utente, non risponde
ai requisiti della normativa sui documenti informatici "validi e rilevanti
a tutti gli effetti di legge".
La firma digitale apposta a un documento con contenuti dinamici può essere
paragonata alla (impossibile) apposizione del sigillo, da parte di un notaio, di
un atto scritto a matita o con righe in bianco.
InfoCamere sa che in alcuni casi la verifica della firma digitale dà un
risultato di "falso positivo" e per questo ha indicato con precisione
i formati di documenti che possono essere usati per il deposito degli atti
presso le Camere di commercio.
Ma DiKe non viene presentato come un programma di validazione di uso
circoscritto all'ambiente camerale (cioè previsto per generare firme
"elettroniche" ai sensi della nuova normativa), ma come un programma
per la firma digitale qualificata ai sensi del TU sulla documentazione
amministrativa e delle altre norme sulla materia. Purtroppo ormai sappiamo con
certezza che i documenti firmati con DiKe (e con i programmi di altri
certificatori) non possono essere "validi e rilevanti a tutti gli effetti
di legge" in una serie di casi molto ampia e purtroppo non facile da
definire con precisione.
C'è una altro aspetto da considerare, emerso durante le nostre prove di DiKe,
PosteCert e DigitalSign.
L' art. 10, comma 1 delle regole tecniche
stabilisce che Gli strumenti e le procedure utilizzate per la generazione, l'apposizione
e la verifica delle firme digitali debbono presentare al sottoscrittore, chiaramente
e senza ambiguità, i dati a cui la firma si riferisce e richiedere conferma
della volontà di generare la firma.
Solo DigitalSign rispetta la disposizione alla lettera, almeno per i formati
più diffusi (.doc, .xls, .txt, .pdf, htm), mostrando il documento nella
finestra del programma di firma e verifica. DiKe apre spesso un visualizzatore
esterno, e questo può comportare "ambiguità" nel caso in cui
l'utente abbia diversi documenti aperti contemporaneamente. PosteCert sembra
completamente fuori norma, perché chiede se deve aprire o no il documento e, in
caso di risposta negativa, presenta solo una finestra in cui chiede la conferma
della volontà di apporre la firma su un certo file. E quando si apre la
procedura di verifica, dà soltanto il risultato, senza visualizzare un bel
nulla!
Tutto questo è molto grave. La firma digitale è sicura solo se tutti i
passaggi previsti dalla normativa sono rispettati, uno per uno. L'autorità di
vigilanza (ancora l'AIPA, fino a quando resterà in vita) dovrebbe verificare e
assumere i necessari provvedimenti, perché le conseguenze di queste anomalie
potrebbero essere devastanti. Si pensi al caso in cui la parte che predispone un
contratto, in buona fede, si veda poi produrre clausole differenti da quelle
scritte originariamente. O, al contrario, che due contraenti sottoscrivano
(sempre in buona fede) un atto nel quale alcuni dati siano sostituiti da altri e
non si riesca a ricostruire le informazioni originali. Né si deve trascurare
l'ipotesi che qualcuno sfrutti la variabilità del documento sottoscritto come
"artifizio" per commettere una truffa.
In tutti questi casi si prospettano conseguenze molto serie sul piano
civilistico: sul prossimo numero pubblicheremo un autorevole intervento in
materia di responsabilità civile per i danni derivanti da effetti impropri
dell'uso della firma digitale.
Per concludere questa puntata di una storia molto ingarbugliata è opportuna
una considerazione di ordine generale.
La normativa sulla firma digitale introdotta in Italia nel '97 resta un
capolavoro di lungimiranza: anche i difetti che ora vengono alla luce, e che non
era facile immaginare sei anni fa, quando fu presentata la prima bozza, sono in
qualche modo superabili sul piano tecnico senza ricorrere a nuove formulazioni
legislative (che appaiono, comunque, opportune e urgenti, anche per risolvere le
questioni aperte dal recepimento della direttiva europea).
Nel dettare le prime regole sulla materia il legislatore aveva come unico punto
di riferimento la dottrina sul documento cartaceo. Proprio su questa base ha
formulato la definizione del documento informatico nel DPR 513/97, diversa da quella della evidenza
informatica introdotta con le regole tecniche. Così oggi possiamo
capire perché l'immutabilità della seconda non comporta necessariamente, sul
piano giuridico, che il primo sia valido e rilevante a tutti gli effetti di
legge.
Quali sono i rimedi possibili? Come spiegano Corrado Giustozzi nell'articolo
già citato e Andrea Gelpi in Non spetta all'utente
risolvere il problema, è un rebus di ardua soluzione. |