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Ci siamo occupati, negli articoli precedenti, del "ritorno" ai principi
del codice civile in tema di prove documentali segnato dal cosiddetto codice delle amministrazioni digitali
approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri lo scorso 11 novembre
2004 e, in particolare, dall'articolo 18
del testo provvisorio, nella parte in cui dispone che "Il documento
informatico, sottoscritto con firma digitale o con un altro tipo di firma
elettronica qualificata, ha l'efficacia prevista dall'articolo 2702 del
codice civile" (comma 2).
E' venuto ora il momento di tentare una prima lettura della espressione che
completa il secondo comma dell'articolo, disponendo che "L'utilizzo del
dispositivo di firma si presume riconducibile al titolare, salvo che sia data
prova contraria."
Com'è noto, mentre nel nostro sistema processuale il
documento può assumere valore di prova nel processo solo se esso è attribuito
con certezza assoluta al suo autore, nel sistema processuale dei Paesi di Common
Law il documento è ammesso come prova solo se il suo autore può essere
esaminato dalle parti davanti al giudice (in applicazione del generale principio
noto come Hearsay Rule) e, con l'avvento dei documenti informatici, la
giurisprudenza ha dovuto individuare alcune deroghe per ammettere in giudizio le
scritture contabili (Business Record Exemption) e le stampe dei tabulati
(Print-Out Exemption).
In Italia, pertanto, chi intende provare in giudizio l'avvenuto
pagamento di un debito può esibire in giudizio la scrittura con cui il
creditore dichiara, sottoscrivendosi, di aver ricevuto puntualmente la somma
dovuta (quietanza): poiché la scrittura privata "fa piena prova, sino a
querela di falso della provenienza delle dichiarazioni di chi l'ha
sottoscritta" (art. 2702 cod. civ.) il giudice riterrà provato l'adempimento
dell'obbligazione se colui, nei cui confronti la scrittura viene prodotta in
giudizio (nell'ipotesi: il creditore), non disconosce la quietanza oppure se
la sottoscrizione in calce al documento è stata autenticata da un notaio o da
altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato dalla legge (ad esempio il
cancelliere, il segretario comunale, l'ufficiale di stato civile nei casi
previsti dalla legge) nel qual caso il disconoscimento della sottoscrizione non
ha alcun effetto poiché la legge presume "riconosciuta" la sottoscrizione
autenticata.
Anche in caso di disconoscimento della scrittura privata,
peraltro, è possibile che il documento sia ugualmente attribuito a colui che
appare come autore della scrittura in esito alla procedura di verificazione
(art. 214 e 216 c.p.c.).
Si tratta, infatti, di un procedimento di carattere istruttorio, preordinato
alla utilizzazione della prova documentale da parte del giudice che, in assenza
di un riconoscimento tacito (art. 215 c.p.c.) o espresso della scrittura privata
non può porre la scrittura privata a fondamento della decisione.
In sostanza, se colui contro il quale è prodotto il documento sottoscritto
disconosce la propria firma apparente (e se il documento è rilevante ai fini
della decisione) il giudice fa custodire il documento contestato, stabilisce un
termine per il deposito in cancelleria delle "scritture di comparazione" e
nomina un consulente tecnico incaricandolo di accertare la autenticità della
firma (art. 217 c.p.c.), tenendo presente che - a norma dell'articolo 216
c.p.c. - è la parte che intende valersi della scrittura disconosciuta che
deve proporre i mezzi di prova.
In termini giuridici, si usa dire che è la parte, che
intende insistere nel riferire la scrittura privata alla controparte che l'ha
disconosciuta, che ha l'onere di proporre istanza di
verificazione instaurando il relativo procedimento nel quale detta parte è
attrice e deve conseguentemente adempiere l'onere della prova (ex art. 2697
c.c.).
Lo scopo della procedura di verificazione proposta in via
incidentale è, infatti, quello di escludere l'efficacia probatoria della
scrittura privata nel processo in cui essa viene utilizzata: l'azione ha
finalità istruttorie e sii inquadra nell'ambito dell'attività probatoria
delle parti. L'eventuale accertamento della falsità della sottoscrizione
impedisce - ad esempio - al debitore che ha prodotto in giudizio una
ricevuta di pagamento di utilizzarla come prova del suo adempimento (e consente
dunque al giudice di condannare il debitore a pagare la somma richiesta dal
creditore) ma l'accertamento della falsità della scrittura disconosciuta, in
esito al procedimento incidentale di verificazione, non ha effetti erga omnes:
per affermare la falsità del documento con efficacia generale, a chiunque
opponibile, all'autore apparente del documento la giurisprudenza riconosce la
querela di falso (artt. 221 e ss. c.p.c.), da azionare anche in via principale
(come afferma la recente sentenza n. 19727, emessa dalla seconda sezione civile
della Corte di Cassazione il 23 dicembre 2003).
Tutto ciò è, ovviamente, applicabile - con i necessari
adattamenti - anche all'ipotesi del disconoscimento della scrittura privata
formata su supporto informatico e sottoscritta con firma digitale.
La verificazione incidentale (endoprocessuale) della sottoscrizione di un
documento informatico, richiesta al fine di rendere utilizzabile nel processo il
documento informatico disconosciuto dal suo autore apparente, non ha -
innanzitutto - nulla in comune con la "verifica" della firma digitale a cui
fanno riferimento agli articoli 1/ll, 1/mm,
22/a, 22/d, 22/e, 27/bis/e, 28/2,
28/bis/b, 29/bis/c del testo unico sulla
documentazione amministrativa (d.P.R. 445/2000), che attiene, invece, al
controllo di coerenza tra chiave pubblica utilizzata per decifrare e la chiave
privata utilizzata per cifrare/firmare il documento al fine di rendere noto il
titolare della coppia di chiavi utilizzata per la firma digitale.
E' vero che, nel procedimento di verificazione giudiziale,
le scritture di comparazione non sono utilizzabili per determinare l'autenticità
del documento informatico; esse, tuttavia, costituiscono soltanto uno dei mezzi
di prova che concorrono all'accertamento della autenticità del documento.
Il codice prevede, infatti, che colui che opera il disconoscimento proponga "i
mezzi di prova che ritiene utili" e che il giudice, nominato il consulente
tecnico, ammetta (oltre alle scritture di comparazione) "altre prove".
Nel caso della verificazione del documento informatico (come
osservano correttamente M. Cammarata e E. Maccarone nel loro saggio La firma
digitale sicura, Milano, 2002, p.148 e ss.) l'identità dell'autore di
una sottoscrizione con strumenti informatici può essere accertata - nel corso
delle operazioni di firma - attraverso meccanismi di sicurezza collegati ad
una particolare caratteristica fisica del soggetto (chiave biometrica, art. 22
lett. e TUDA) costituiti dalla sequenza digitalizzata di un'impronta digitale
o del timbro della voce, nelle applicazioni attualmente conosciute, che rendono
utilizzabile il sistema di firma solo al suo legittimo titolare.
Queste applicazioni, tuttavia, non riguardano ancora la generalità dei casi.
La prova d'alibi ("non potevo firmare perché ero altrove
quando fu apposta - da altri e a mia insaputa - la firma sul documento") e
il tracciamento dei dati per risalire alla stazione da cui fu apposta la firma
digitale sul documento costituiscono, probabilmente, i principali mezzi
istruttori su cui si fonda il disconoscimento della scrittura informatica (e
ciò comporta la necessità, per il giudice, di acquisire ed aggiornare
costantemente un'adeguata conoscenza delle nuove tecnologie).
Qui, dunque, si rivela il senso e l'importanza della norma opportunamente
inserita nel codice in via di approvazione: l'onere di provare che la
scrittura informatica è "vera" (e può essere usata come prova in giudizio)
resta pur sempre a carico della parte che intende avvalersi del documento,
ma "L'utilizzo del dispositivo di firma si presume riconducibile al titolare"
e, conseguentemente, l'onere di provare che è stato il titolare ad usare lo
strumento di firma è invertito dalla presunzione di legge.
Chi afferma in giudizio la falsità della propria firma
digitale, dunque, non può limitarsi ad un mero disconoscimento formale, ma deve
anche allegare la prova del "mancato utilizzo" (o della perdita di possesso
incolpevole) dello strumento di firma, ad esempio con la produzione di denuncia
di smarrimento o di furto dello strumento di firma (che espone il titolare alle
conseguenze penali del falso ideologico ex art. 483 c.p.).
Solo dopo che è stata fornita questa fondamentale prova, l'onere di provare
che - comunque - la firma è stata apposta dall'autore apparente del
documento spetta (nuovamente) alla parte che intende valersi del documento (ad
esempio col ricorso alla prova testimoniale).
A ben vedere, il giudice del merito ha sempre la facoltà di
(prevista dall'articolo 115, comma 2, del c.p.c.) di porre, senza bisogno di
prova, a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella
comune esperienza e il possesso dello strumento di firma da parte del suo
titolare, tenuto conto degli obblighi che incombono a suo carico per legge o per
effetto del contratto, è probabilmente la prima delle presunzioni utilizzabili
dal giudice in questo contesto.
A norma dell'articolo 29/sexies del testo unico sulla
documentazione amministrativa i dispositivi sicuri per la generazione delle
firme devono presentare requisiti di sicurezza tali da garantire che la chiave
privata "possa essere sufficientemente protetta dal titolare dall'uso da parte
di terzi" (rectius: di altri) ed è evidente che tra le "misure
organizzative e tecniche idonee ad evitare danno ad altri" imposte al titolare
figura al primo posto l'obbligo di custodia diligente e il divieto di
consentire ad altri l'uso del proprio strumento di firma.
Nel nostro ordinamento, infatti, chi agisce in nome altrui
deve averne il potere, conferito dall'interessato con la procura al fine di
rendere noto ai terzi che il procuratore è stato autorizzato a trattare per
conto del soggetto rappresentato. Coloro che vengono in contatto col
rappresentante possono sempre esigere che questi giustifichi i propri poteri
(art. 1393 cod. civ.) e, ovviamente, il procuratore che, per adempiere l'incarico
ricevuto, sottoscrive un qualsiasi documento, firma sempre col proprio nome,
seppure per conto altrui (se, dunque, appone la firma digitale, deve utilizzare il
proprio strumento di firma).
Ha ragione, peraltro, Manlio Cammarata quando sostiene che
".chi conosce come sono stati emessi i primi certificati di firma nel nostro
Paese tende piuttosto a 'presumere' che l'utilizzo dei dispositivi non sia
riconducibile al titolare, ma alla segretaria, a un assistente o piuttosto al
commercialista. (Il disconoscimento della firma tra
"diritto" e "fatto"), ma si tratta di prassi
sostanzialmente illegittime, formatesi nel contesto delle prime concrete
applicazioni delle nuove tecnologie.
In conclusione, se il documento informatico "ha l'efficacia
prevista dall'articolo 2702 del codice civile", chi assume, ad esempio, di
aver pagato il suo debito esibendo in giudizio una quietanza sottoscritta con
firma digitale, di fronte al disconoscimento della firma da parte dell'autore
apparente del documento, avrebbe potuto limitarsi - anche in assenza del
secondo comma dell'articolo 18 in commento - a provare che la firma è stata
apposta con lo strumento di firma del suo creditore, lasciando al giudice di
presumere che il titolare dello strumento di firma è l'autore della
sottoscrizione. La prova dello smarrimento o del furto (o dell'incauto
affidamento ad altre persone) dello strumento di firma sarebbe rimasta,
comunque, in capo a chi disconosce la propria firma.
L'introduzione della presunzione secondo cui "L'utilizzo
del dispositivo di firma si presume riconducibile al titolare, salvo che sia
data prova contraria" costituisce, comunque, una opportuna misura adottata dal
legislatore delegato per impedire disconoscimenti strumentali o maliziosi del
documento informatico in giudizio in considerazione della complessità della
verifica della firma digitale (che dovrebbe assicurare la riconducibilità della
firma digitale alla chiave privata custodita nello strumento di firma con una
probabilità prossima alla certezza).
Sarà ancora una volta la giurisprudenza di merito a
confermare, nella pratica processuale, la validità di questo meccanismo
processuale. In ogni caso, di fronte al monstrum giuridico generato dal
decreto legislativo n. 10 del 2002 (del quale s'è detto nei precedenti
articoli), dev'essere accolto con favore lo sforzo compiuto dal legislatore
per rendere la procedura di verificazione incidentale della firma digitale
qualcosa di meno di una diabolica probatio senza devastare inutilmente il
delicato equilibrio su cui si fonda la millenaria tradizione giudica del sistema
probatorio del nostro processo civile.
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