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Firma digitale

Effetti probatori: si torna ai principi del processo civile - 2

di Gianni Buonomo* - 16.12.04

 

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Per il documento cartaceo la "piena prova" sulla provenienza delle dichiarazioni da parte del firmatario viene assicurata dal fatto che ad autenticare la sottoscrizione è un soggetto investito di pubblici poteri (un privato incaricato di un pubblico servizio, come il notaio o un pubblico funzionario, come il cancelliere), che deve provvedere ad accertare l'identità della persona che sottoscrive e deve assistere alla sottoscrizione apposta in sua presenza); inoltre, il notaio è tenuto all'osservanza della legge professionale (art. 72 della legge notarile), ed è soggetto alla vigilanza del Ministro della giustizia e del Procuratore generale presso la Corte di appello (art. 127 l.not.).

Il valore di prova legale dell'atto pubblico è, quindi, legato agli adempimenti che sono posti a carico del notaio o del pubblico ufficiale rogante che si estendono, ad esempio, per la preparazione e stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, sino alla preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene e, più in generale, delle risultanze dei registri immobiliari attraverso la loro visura nell'ambito di una prestazione professionale che non è solo legata all'osservanza delle norme codicistiche sul contratto d'opera professionale, ma è soggetta (oltre alla responsabilità civile o penale) anche alle gravi sanzioni disciplinari previste dalla legge professionale.

Nel caso del documento informatico munito di firma digitale, secondo le disposizioni introdotte col recepimento della direttiva 1999/93/CE, l'efficacia di "piena prova, sino a querela di falso" della provenienza delle dichiarazioni del firmatario deriverebbe, puramente e semplicemente, dalla cosiddetta attività di certificazione delle chiavi di cifratura ad opera del soggetto certificatore che, contrariamente a quanto suggerisce il nomen utilizzato dalle disposizioni regolamentari del testo unico (art. 26), è un soggetto privato che esercita liberamente la su attività d'impresa nel territorio dello Stato e non è sottoposto ad alcuna autorizzazione preventiva.

Non è vero, inoltre, che la direttiva comunitaria ha imposto agli Stati membri di adottare ben quattro categorie documentali con differente valore probatorio (l'Italia è, peraltro, l'unico Stato ad avere adottato una legislazione tanto inutilmente complessa).
La direttiva distingue, a ben vedere, soltanto tra documenti che hanno valore probatorio se sottoscritti con una firma digitale (o a questa equiparabile per caratteristiche di sicurezza ed affidabilità) e documenti che, non avendo alcun valore probatorio, possono essere liberamente valutati dal giudice.

Né più né meno.

In conclusione, il documento informatico, munito di firma digitale, si pone - attualmente, ed in attesa che entri in vigore la modifica contenuta nell'articolo 18 del codice delle amministrazioni digitali - come una sorta di tertium genus tra la scrittura privata e l'atto pubblico, avendo in giudizio la stessa efficacia probatoria di una scrittura privata munita di sottoscrizione legalmente riconosciuta, ed essendo, in realtà, in nulla diverso da una scrittura privata munita di sottoscrizione non autenticata. Di conseguenza, il documento non può essere disconosciuto e può esser utilizzato dalla parte che intende avvalersene in giudizio, esattamente come un atto a fede privilegiata, sino ad avvenuto accertamento della falsità in seguito a proposizione di querela di falso.

La norma che ha partorito questo monstrum giuridico - peraltro - avrebbe dovuto, per non eccedere i limiti della delega legislativa (art. 76 Cost.) limitarsi al recepimento nell'ordinamento interno della direttiva, secondo i criteri indicati dell'articolo 2 della legge di delega 29 dicembre 2000, n. 422, e precisamente, osservando gli specifici principi e criteri direttivi "stabiliti nella direttiva da attuare", ed introducendo solo le modifiche o integrazioni necessarie per evitare "disarmonie con le discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare" (art. 2 lett. b).

Ebbene, il decreto legislativo 23 gennaio 2002, n. 10 ha violato, come s'è visto, entrambi i limiti assegnati dalla legge di delegazione delle Camere.
In primo luogo, perché la direttiva 1999/93/CE non prevede, in alcuna disposizione, che l'efficacia probatoria di un documento informatico munito di firma digitale debba essere maggiore di quella attribuita ad una scrittura privata con sottoscrizione non autenticata.In secondo luogo, perché, lungi dal recepire il diritto comunitario nel diritto interno, evitando disarmonie, il decreto delegato ha, senza motivo, alterato profondamente il sistema probatorio su cui si fonda il processo civile.

Un'ultima considerazione sul tema della procedura di verificazione e sulla novità della presunzione dell'uso del dispositivo da parte del titolare.

Il disconoscimento della firma da parte dell'autore dev'essere considerato sempre ammissibile, anche nel caso in cui la firma (digitale) sia stata apposta su una scrittura su supporto informatico.
E' evidente che, in questo caso, dovendo dimostrare - ad esempio - che la falsità consiste nell'uso abusivo dello strumento di firma, potrebbe rendersi necessario identificare il calcolatore che è stato utilizzato per formare il documento, la chiave privata utilizzata per apporre la firma, il percorso seguito dal documento trasmesso per via telematica, la validità del certificato emesso dal soggetto certificatore ed altre simili attività che richiedono il ricorso ad accertamenti tecnici per loro natura lunghi e complessi non previsti (né prevedibili dal legislatore del 1942) nelle disposizioni sulla procedura di verificazione (artt. 214 e ss. c.p.c.).

Ciò significa, peraltro, che alcune disposizioni potrebbero risultare non applicabili alla verificazione della scrittura informatica (come le disposizioni sulle "scritture di comparazione") ma non anche che l'intera procedura debba ritenersi tout court non applicabile al documento informatico.
Ovviamente, questa procedura incidentale che si svolge nel processo nel contraddittorio tra le parti e sotto la direzione del giudice non può avere nulla in comune con la "verifica" della firma digitale effettuata dalla parte in difetto di contraddittorio attraverso la "certificazione" della chiave pubblica effettuata da un soggetto privato.

In conclusione, lo scarso successo sino ad oggi incontrato dalla firma digitale non sembra si possa ragionevolmente ascrivere alla minore o maggiore efficacia probatoria del documento informatico nel processo.
I documenti informatici sostituiranno nell'uso corrente i documenti cartacei solo quando essi offriranno le stesse caratteristiche di affidabilità e di sicurezza della carta e, prima fra tutte, la possibilità, di fronte agli abusi ed alle falsificazioni (sempre possibili) di disconoscere davanti al giudice la propria firma apparente affrontando le conseguenze di un giudizio di verificazione.

Nel frattempo, perché utilizzare, per la sottoscrizione di un contratto, la firma digitale (che non può essere disconosciuta) al posto del supporto cartaceo che è sottoposto al normale (e più equilibrato) regime del possibile disconoscimento in giudizio?

Continua sul N. 309
 

* Magistrato, già componente della commissione AIPA sulla firma digitale

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