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Per il documento cartaceo la "piena prova" sulla provenienza delle
dichiarazioni da parte del firmatario viene assicurata dal fatto che ad
autenticare la sottoscrizione è un soggetto investito di pubblici poteri (un
privato incaricato di un pubblico servizio, come il notaio o un pubblico
funzionario, come il cancelliere), che deve provvedere ad accertare l'identità
della persona che sottoscrive e deve assistere alla sottoscrizione apposta in
sua presenza); inoltre, il notaio è tenuto all'osservanza della legge
professionale (art. 72 della legge notarile), ed è soggetto alla vigilanza del
Ministro della giustizia e del Procuratore generale presso la Corte di appello
(art. 127 l.not.).
Il valore di prova legale dell'atto pubblico è, quindi, legato agli
adempimenti che sono posti a carico del notaio o del pubblico ufficiale rogante
che si estendono, ad esempio, per la preparazione e stesura di un atto pubblico
di trasferimento immobiliare, sino alla preventiva verifica della libertà e
disponibilità del bene e, più in generale, delle risultanze dei registri
immobiliari attraverso la loro visura nell'ambito di una prestazione
professionale che non è solo legata all'osservanza delle norme codicistiche
sul contratto d'opera professionale, ma è soggetta (oltre alla
responsabilità civile o penale) anche alle gravi sanzioni disciplinari previste
dalla legge professionale.
Nel caso del documento informatico munito di firma digitale, secondo le
disposizioni introdotte col recepimento della direttiva 1999/93/CE, l'efficacia
di "piena prova, sino a querela di falso" della provenienza delle
dichiarazioni del firmatario deriverebbe, puramente e semplicemente, dalla
cosiddetta attività di certificazione delle chiavi di cifratura ad opera del
soggetto certificatore che, contrariamente a quanto suggerisce il nomen
utilizzato dalle disposizioni regolamentari del testo unico (art. 26), è un soggetto privato che
esercita liberamente la su attività d'impresa nel territorio dello Stato e
non è sottoposto ad alcuna autorizzazione preventiva.
Non è vero, inoltre, che la direttiva comunitaria ha imposto agli Stati
membri di adottare ben quattro categorie documentali con differente valore
probatorio (l'Italia è, peraltro, l'unico Stato ad avere adottato una
legislazione tanto inutilmente complessa).
La direttiva distingue, a ben vedere, soltanto tra documenti che hanno valore
probatorio se sottoscritti con una firma digitale (o a questa equiparabile per
caratteristiche di sicurezza ed affidabilità) e documenti che, non avendo alcun
valore probatorio, possono essere liberamente valutati dal giudice.
Né più né meno.
In conclusione, il documento informatico, munito di firma digitale, si pone -
attualmente, ed in attesa che entri in vigore la modifica contenuta nell'articolo 18 del codice delle
amministrazioni digitali - come una sorta di tertium genus tra la
scrittura privata e l'atto pubblico, avendo in giudizio la stessa efficacia
probatoria di una scrittura privata munita di sottoscrizione legalmente
riconosciuta, ed essendo, in realtà, in nulla diverso da una scrittura privata
munita di sottoscrizione non autenticata. Di conseguenza, il documento non può
essere disconosciuto e può esser utilizzato dalla parte che intende avvalersene
in giudizio, esattamente come un atto a fede privilegiata, sino ad avvenuto
accertamento della falsità in seguito a proposizione di querela di falso.
La norma che ha partorito questo monstrum giuridico - peraltro -
avrebbe dovuto, per non eccedere i limiti della delega legislativa (art. 76
Cost.) limitarsi al recepimento nell'ordinamento interno della direttiva,
secondo i criteri indicati dell'articolo 2 della legge di delega 29 dicembre 2000, n. 422, e precisamente,
osservando gli specifici principi e criteri direttivi "stabiliti nella
direttiva da attuare", ed introducendo solo le modifiche o integrazioni
necessarie per evitare "disarmonie con le discipline vigenti per i singoli
settori interessati dalla normativa da attuare" (art. 2 lett. b).
Ebbene, il decreto legislativo 23 gennaio 2002, n. 10
ha violato, come s'è visto, entrambi i limiti assegnati dalla legge di
delegazione delle Camere.
In primo luogo, perché la direttiva 1999/93/CE
non prevede, in alcuna disposizione, che l'efficacia probatoria di un
documento informatico munito di firma digitale debba essere maggiore di quella
attribuita ad una scrittura privata con sottoscrizione non autenticata.In
secondo luogo, perché, lungi dal recepire il diritto comunitario nel diritto
interno, evitando disarmonie, il decreto delegato ha, senza motivo,
alterato profondamente il sistema probatorio su cui si fonda il processo civile.
Un'ultima considerazione sul tema della procedura di verificazione e sulla
novità della presunzione dell'uso del dispositivo da parte del titolare.
Il disconoscimento della firma da parte dell'autore dev'essere
considerato sempre ammissibile, anche nel caso in cui la firma (digitale) sia
stata apposta su una scrittura su supporto informatico.
E' evidente che, in questo caso, dovendo dimostrare - ad esempio - che la
falsità consiste nell'uso abusivo dello strumento di firma, potrebbe rendersi
necessario identificare il calcolatore che è stato utilizzato per formare il
documento, la chiave privata utilizzata per apporre la firma, il percorso
seguito dal documento trasmesso per via telematica, la validità del certificato
emesso dal soggetto certificatore ed altre simili attività che richiedono il
ricorso ad accertamenti tecnici per loro natura lunghi e complessi non previsti
(né prevedibili dal legislatore del 1942) nelle disposizioni sulla procedura di
verificazione (artt. 214 e ss. c.p.c.).
Ciò significa, peraltro, che alcune disposizioni potrebbero risultare non
applicabili alla verificazione della scrittura informatica (come le disposizioni
sulle "scritture di comparazione") ma non anche che l'intera procedura
debba ritenersi tout court non applicabile al documento informatico.
Ovviamente, questa procedura incidentale che si svolge nel processo nel
contraddittorio tra le parti e sotto la direzione del giudice non può avere
nulla in comune con la "verifica" della firma digitale effettuata dalla
parte in difetto di contraddittorio attraverso la "certificazione" della
chiave pubblica effettuata da un soggetto privato.
In conclusione, lo scarso successo sino ad oggi incontrato dalla firma
digitale non sembra si possa ragionevolmente ascrivere alla minore o maggiore
efficacia probatoria del documento informatico nel processo.
I documenti informatici sostituiranno nell'uso corrente i documenti cartacei
solo quando essi offriranno le stesse caratteristiche di affidabilità e di
sicurezza della carta e, prima fra tutte, la possibilità, di fronte agli abusi
ed alle falsificazioni (sempre possibili) di disconoscere davanti al giudice la
propria firma apparente affrontando le conseguenze di un giudizio di
verificazione.
Nel frattempo, perché utilizzare, per la sottoscrizione di un contratto, la
firma digitale (che non può essere disconosciuta) al posto del supporto
cartaceo che è sottoposto al normale (e più equilibrato) regime del possibile
disconoscimento in giudizio? Continua
sul N. 309
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