L'articolo 18 del decreto legislativo
sul riordino delle disposizioni vigenti sulla cosiddetta società dell'informazione
(pomposamente definito "codice delle amministrazioni digitali") approvato in
via preliminare dal Consiglio dei ministri del 11 novembre 2004 segna una
vistosa inversione di tendenza sul delicato tema dell'efficacia probatoria dei
documenti informatici e sembra accogliere le numerose critiche che
accompagnarono l'emanazione del decreto legislativo n. 10 del 2002 in
occasione del recepimento della direttiva comunitaria sulle firme elettroniche
(n. 93 del 1999).
Il testo approvato il mese scorso (che, va ricordato, dovrà essere
nuovamente e definitivamente approvato una volta acquisito il parere
obbligatorio del Consiglio di Stato e delle commissioni parlamentari), dispone
che "Il documento informatico sottoscritto con firma digitale o con un altro
tipo di firma elettronica qualificata, ha l'efficacia prevista dall'articolo
2702 del codice civile." e riproduce integralmente, nella prima parte, il
testo dell'articolo 5 del DPR n. 513 del
1997 ("Il documento informatico, sottoscritto con firma digitale . ha
efficacia di scrittura privata ai sensi dell'art. 2702 del codice civile").
Frutto di evidente compromesso tra i sostenitori del sistema introdotto dal decreto legislativo n. 10 del 2002 attualmente
in vigore e quanti da tempo invocano, invece, una definizione dell'istituto
più rispettosa del vigente sistema processuale, è la seconda parte dell'articolo
18, ove è affermato il principio secondo cui "L'utilizzo del dispositivo di
firma si presume riconducibile al titolare, salvo che sia data prova contraria".
Prima di affrontare - con la dovuta attenzione e dopo la definitiva emanazione
del provvedimento - l'analisi del nuovo testo normativo è necessario chiarire
alcuni principi generali, anche a fine di non limitare il dibattito che si va
sviluppando in questi giorni ad un ristretto gruppo di iniziati.
In primo luogo, non è vero, da un punto di vista storico e giuridico, che l'attuale
formulazione dell'articolo 10 del testo
unico sulla documentazione amministrativa (DPR. 445/2000) secondo cui "Il
documento informatico, quando è sottoscritto con firma digitale. e la firma
è basata su di un certificato qualificato ed è generata mediante un
dispositivo per la creazione di una firma sicura, fa. piena prova, fino a
querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritto"
è diretta ed immediata conseguenza della direttiva
comunitaria n. 93 del 1999.
La direttiva impone agli Stati membri di provvedere affinché le firme
elettroniche avanzate, basate su un certificato qualificato e create mediante un
dispositivo per la creazione di una firma sicura, (1) ".posseggano i
requisiti legali di una firma in relazione ai dati in forma elettronica così
come una firma autografa li possiede per dati cartacei " e siano ammesse
come prova in giudizio e che (2) ".una firma elettronica non sia
considerata legalmente inefficace e inammissibile come prova in giudizio
unicamente a causa del fatto che è in forma elettronica." (art. 5 comma 2).
La direttiva comunitaria, in sostanza, impone agli Stati membri di equiparare
alla sottoscrizione autografa, quanto agli effetti probatori, una firma
elettronica avanzata, basata su un certificato qualificato e generata con un
dispositivo sicuro, ovvero di non escludere la rilevanza giuridica di una
firma elettronica per il solo fatto che essa non può essere apposta su un
documento cartaceo.
La direttiva, in particolare, non prevede in alcuna norma che le firme
elettroniche possano conferire al documento informatico una efficacia probatoria
maggiore di quella che assume nel processo una scrittura privata munita
di sottoscrizione autografa.
Né poteva essere altrimenti, posto che il principio ispiratore della
legislazione sopranazionale è il cosiddetto principio di non discriminazione
dei documenti informatici rispetto ai documenti cartacei e non già un
principio, per così dire, di favore.
Il documento costituisce, infatti, nel nostro ordinamento come in tutti gli
ordinamenti di civil law, un fondamentale mezzo di prova risalente allo jus
novum postclassico, quando venne introdotta nelle prassi negoziali una nuova
formalità (la scriptura) per evitare che i negozi di maggior rilievo
fossero lasciati al labile ricordo connesso ad una manifestazione meramente
orale o gestuale dei loro autori.
Il documento, dunque, è il mezzo di prova utilizzato, ancor oggi, per
conservare nel tempo la prova di un fatto "oggettivo" (ad esempio, la
descrizione di ciò che è avvenuto davanti ad un pubblico ufficiale ed ai
testimoni) o di un fatto "soggettivo" (ad esempio la volontà negoziale
delle parti trascritta nel contratto) ed è costituito da ogni strumento idoneo
a conservare nel tempo la registrazione di un atto, di un fatto o di un dato,
prescindendo dal corpo recettore sul quale è registrata l'informazione.
Ora, è noto che il vigente codice civile attribuisce un differente valore
probatorio nel processo a documenti di speciale rilevanza, redatti con
particolari formalità dal notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato,
destinati a fare "piena prova" della provenienza dal pubblico ufficiale che
l'ha sottoscritto e di tutto quanto il pubblico ufficiale attesta essere
avvenuto in sua presenza (atti pubblici: articolo 2700 c.c.)
Di fronte ad un atto pubblico, il giudice è vincolato dalla legge a considerare
come vere le circostanze descritte nel documento dal pubblico ufficiale, a meno
che non sia stata giudizialmente affermata la falsità del documento attraverso
la querela di falso.
La scrittura privata, invece, è un documento che non ha la stessa efficacia
probatoria dell'atto pubblico, perché non è redatto da un pubblico
ufficiale, ma da un privato.
In particolare, la scrittura privata fa prova soltanto contro chi ha
sottoscritto il documento (e non a suo favore) se colui che ne appare il
firmatario ne riconosce come vera la sottoscrizione (art. 2702 c.c.) o se la
sottoscrizione è "considerata come riconosciuta" dalla legge.
Si ha per riconosciuta, ad esempio, la sottoscrizione autenticata dal notaio o
da altro pubblico ufficiale autorizzato, previa identificazione della parte e
mediante attestazione che la firma è stata apposta in sua presenza (art. 2703
co. 2, c.p.c.). In questo caso, colui che appare come firmatario del documento
non può disconoscere la propria firma, a meno che non ottenga la dichiarazione
di falsità dell'atto proponendo querela di falso.
Dunque, può dirsi, con espressione sintetica, che un documento può assumere
valore di prova nel processo solo se esso può attribuirsi con certezza al suo
autore.
Ciò si comprende considerando che, a determinare il convincimento del giudice
sul valore probatorio di uno scritto, prima ancora del suo contenuto, è la
certezza che le espressioni di volontà, in esso rappresentate, sono state
effettivamente volute da colui che figura come autore del documento.
La firma (da firmare = garantire, confermare) non è altro che il segno
con cui l'autore fa proprio uno scritto, cosicché corrisponde a
massima d'esperienza il fatto che il documento sottoscritto appartiene
(cioè: può essere attribuito) a colui che figura come suo firmatario.
L'unico valore attribuibile al documento informatico, privo di
sottoscrizione, prima della legge n. 59 del 1997 era quello proprio dei
documenti che non sono sottoscritti, i quali non possono essere utilizzati
come prova in un giudizio, a meno che essi non siano copia di un documento
sottoscritto (copie fotografiche di scritture: art. 2719 c.c.).
Pertanto, l'unica distinzione che appare giuridicamente rilevante è quella
tra documenti informatici che, in quanto firmati, possono essere utilizzati come
prova nel giudizio e documenti informatici che, essendo privi di firma, non
hanno alcuna rilevanza probatoria.
Il problema, com'è evidente, non è quello della equiparazione della
scrittura informatica alla scrittura cartacea (a queste conclusioni, del resto,
si arriva anche per via interpretativa considerando che il contenuto
rappresentativo del documento prescinde dal supporto sul quale l'informazione
è registrata) bensì quello di individuare con certezza l'autore della
scrittura informatica attraverso un segno equipollente alla sottoscrizione
autografa.
La firma (digitale) apposta o associata al documento informatico è, come
tutti sanno, lo strumento crittografico - equipollente alla sottoscrizione
autografa - attraverso il quale l'ordinamento presume sino a prova
contraria, la provenienza delle dichiarazioni contenute nel documento.
Il documento informatico prodotto in giudizio, dunque, dovrebbe fare "piena
prova" della provenienza delle dichiarazioni in esso contenute solo in caso di
riconoscimento della sottoscrizione da parte dell'autore (ovvero in caso di
autenticazione della firma digitale previo accertamento da parte del pubblico
ufficiale, art. 24/2 DPR 445/2000).
L'articolo 6 del decreto legislativo di recepimento della direttiva
1999/93/CE, spingendosi ben oltre i limiti fissati dalla legge di delegazione
(che si riferisce al semplice recepimento della direttiva) ha stravolto
completamente l'impianto originario della legge n. 59/1997 e del regolamento
sulla firma digitale (DPR 513/1997) e, ad un tempo, lo stesso sistema delle
prove accolto dal codice civile e fondato sulla tradizionale bipartizione tra
atti pubblici e scritture private rendendo del tutto incomprensibili (e,
comunque, inutili) tutte le norme del testo unico che, come la disposizione sull'autenticazione
della scrittura informatica, presupponevano una sostanziale equivalenza tra
scrittura privata e documento informatico sottoscritto con firma digitale.
Disponendo che il documento informatico sottoscritto con firma digitale fa
piena prova, fino a querela di falso, delle provenienza delle dichiarazioni di
chi l'ha sottoscritto, il DLgs 10/2002 ha, sino ad oggi, sostanzialmente
equiparato il documento sottoscritto con firma digitale ad una scrittura con
firma autenticata ed ha reso una scrittura privata redatta su supporto
informatico conseguentemente non disconoscibile in giudizio dall'autore
apparente che assume una frode ai suoi danni.
Peraltro, nessuna norma sovranazionale, tanto meno le disposizioni della
direttiva 1999/93/CE, imponeva od impone agli Stati membri dell'Unione di
rendere i documenti informatici qualcosa di più dei documenti cartacei.
Anche perché il valore probatorio del documento non può certo derivare dal
supporto su cui esso è formato o dalla tecnologia utilizzata per apporre la
firma elettronica perché è legato alla pubblica fede che la legge attribuisce
agli atti redatti dai pubblici ufficiali (si veda anche il mio articolo, scritto
"a caldo" quando fu reso noto lo schema del DLgs 10/02 Lo schema governativo stravolge il processo civile).
(Continua sul prossimo numero)
|