La firma digitale non è valida per i rapporti con
l'autorità giudiziaria?
La domanda nasce dalla pubblicazione su una rivista giuridica di un commento a
una decisione del
giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Firenze, che risale al 27
maggio 2003.
Il fatto è di ordinaria amministrazione: la Giunta provinciale di Firenze si
costituisce parte civile in un processo, con una delibera firmata digitalmente
(la Toscana è all'avanguardia nell'adozione delle procedure informatiche nella
pubblica amministrazione ed è la prima regione ad aver emanato una legge ad
hoc).
Ecco il testo della decisione:
Il Giudice,
vista la copia della delibera n. 167 della Giunta Provinciale osserva che le
disposizioni del DPR 445/00 disciplinano, in ossequio alle leggi di semplificazione degli atti
amministrativi, la emanazione di atti con firma digitale, cui è riconosciuta
giuridica esistenza ed efficacia soltanto nei rapporti tra la P.A. ed i privati
ed i concessionari con esplicita eccezione, come risulta dalla Legge Bassanini
bis N° 127/99, nei rapporti a valere con l’autorità giudiziaria.
Pertanto e di conseguenza il documento informatico di cui è stata prodotta
copia non ha efficacia probante della
provenienza e della volontà autorizzativi dell’Ente. Necessariamente dunque,
la dichiarazione di costituirsi PC oggi prodotta è mancante di
prova di quella volontà e quindi non può essere ammessa.
C'è qualcosa che non va, perché la seconda legge di semplificazione che
porta il nome dell'allora ministro della funzione pubblica è la n. 127 del
1997, e non del 1999, e comunque non contiene alcuna disposizione che limiti la
portata del secondo comma dell'art. 15 della "Bassanini 1", la 59/97:
"Gli atti, dati e documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai
privati con strumenti informatici o telematici, i contratti stipulati nelle
medesime forme, nonché la loro archiviazione e trasmissione con strumenti
informatici sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge...".
Per dovere di cronaca, uno strano tentativo di escludere l'uso del documento
informatico nell'ordinaria giurisdizione si era verificato con una prima
versione del testo unico sulla documentazione amministrativa, poi corretto nella
stesura finale (vedi Testo unico: corrette le disposizioni
sulla firma digitale e gli articoli precedenti). Successivamente sono state
emanate le disposizioni sull'invio telematico degli atti nel processo civile e
amministrativo, sicché l'affermazione del GUP di Firenze appare come il frutto
di un momento di distrazione.
A conferma di questa interpretazione c'è il fatto che in un altro processo,
poco tempo dopo, lo stesso giudice ha pacificamente accolto la costituzione di
parte civile della stessa Provincia di Firenze, presentata con le stesse
modalità.
Incidente chiuso, dunque. Ma se ne può trarre una lezione importante: l'uso
della firma digitale è ormai obbligatorio per molti atti della pubblica
amministrazione (soprattutto dopo l'adozione del protocollo informatico) e ora
anche dei privati, come si vede dal recentissimo recepimento della direttiva
2001/115/CE (Decreto
legislativo 52/04). Ma lo strumento è ancora troppo poco conosciuto e,
soprattutto, non sono chiare le sue implicazioni e i suoi effetti, anche
apparentemente secondari.
Un significativo esempio di questa situazione è nella lettera inviata a
questa rivista da un'amministrazione comunale, in cui si chiede come fare a
mantenere procedure contorte e al limite della legalità anche dopo l'adozione
della gestione informatica dei procedimenti (Aiuto! La firma digitale rivela le irregolarità).
Non è la sola domanda di questo tipo giunta negli ultimi tempi. Le vecchie
abitudini sono dure a morire ed è difficile cogliere tutti gli aspetti più
significativi dell'innovazione. Che non sono solo la maggiore efficienza ed
efficacia delle procedure, ma anche la loro intrinseca regolarità e trasparenza.
Le soluzioni tecnologiche hanno dunque anche una funzione
"moralizzatrice", una sorta di effetto collaterale che, come capita
per molte medicine, non è per nulla gradito all'ammalato.
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