Tra i tanti argomenti che InterLex ha affrontato, e che in
parte sono ricordati nella relazione introduttiva di
Manlio Cammarata, mi interessa ricollegarmi a quello che mi sembra il tema
centrale attorno a cui ha ruotato in questi anni l'impegno della rivista.
InterLex è stata dall'inizio una rivista aperta per una società
aperta: una società alla quale, come sappiamo da Popper, non mancano i
nemici. Spesso solo ignoranti e sprovveduti ma più spesso infidi, potenti,
pericolosi. Una società, quindi, costantemente a rischio. E dobbiamo dare atto
alla rivista di essere stata sempre presente nella difesa degli spazi di
libertà, creatività e autonomia che questa società ci garantisce ma che
troppo spesso o troppo facilmente rischiano di essere messi in discussione.
In questo intervento vorrei sviluppare due dei temi legati a questo
conflitto: trasparenza contro riservatezza, copyleft contro copyright.
Che poi sono due facce della stessa realtà in opposizione: apertura contro
chiusura; la società aperta da un lato, i suoi nemici dall'altro. Per
concludere con una proposta, che spero faccia discutere.
1. Trasparenza contro riservatezza
Trasparenza, nel linguaggio comune, significa apertura della pubblica
amministrazione. Il potere che si rende visibile, le cose di governo che cessano
di essere "arcana imperii". Storicamente la società della trasparenza ha le
radici nell'oggi tanto vituperato illuminismo, la sua levatrice è la stampa "che
rende il pubblico depositario delle leggi e ha dissipato - dice Beccaria -
quello spirito tenebroso di cabala e di intrigo che sparisce in faccia ai lumi e
alle scienze".
Per la nostra amministrazione, tradizionalmente e culturalmente oscurantista,
la trasparenza nasce d'improvviso con la legge 241 del '90, che consente
l'accesso alla documentazione amministrativa e la partecipazione ai
procedimenti. E' un vero e proprio manifesto della società aperta, e non a caso
l'organo forse più tradizionalista della nostra giurisdizione, il Consiglio di
Stato, cercherà di farla applicare nel modo più restrittivo possibile. Ma
nonostante tutto la legge resiste e trasforma radicalmente il costume
amministrativo.
Fino a che nel '96 c'è un altro giro di boa, arriva la legge 675 e la
tendenza si inverte. La 675 aiuta a rimettere indietro l'orologio, a trasformare
la casa di vetro - in cui la 241 voleva collocare l'amministrazione - in un
fortilizio sotto la cui copertura qualunque abuso è più facile. Quello che
conta in questo processo non è tanto la legge come tale, che pure risponde a
esigenze in sé apprezzabili, quanto il modo in cui è vissuta dalla cattiva
coscienza di molte amministrazioni: come un'occasione per eludere ogni possibile
forma di controllo sociale, per ritornare alle vecchie logiche degli abusi
nascosti sotto l'angolo di un tappeto. A torto o a ragione la privacy viene
invocata per occultare i superemolumenti dei dirigenti o per coprire assunzioni
clientelari. Appellandosi alla privacy un Comune, convenuto in Cassazione per un
abuso commesso ai danni di un contribuente, ha chiesto alla Corte di non
pubblicare il proprio nome nell'eventuale sentenza di condanna. Voleva impedire
furbescamente che altri cittadini, lesi dallo stesso provvedimento, facessero
anch'essi ricorso.
La legge sulla privacy ha finito con l'invadere, spesso in modo demenziale,
ogni aspetto della nostra vita quotidiana: se sei single e chiedi al gestore la
nota delle tue telefonate ti viene consegnata monca. Per rispetto della (tua)
privacy non devi sapere a chi hai telefonato. Ma ci sono casi più gravi. Sul
Corriere della sera di pochi giorni fa una signora disperata lamentava che la
scuola non ha voluto mai dirle, neppure dietro molte insistenze, se la figlia di
19 anni si assentava ripetutamente come lei sospettava, e solo alla fine del
corso ha acconsentito a farle sapere che aveva ormai abbandonato. Si tratta di
una donna vedova, che tiene la figlia nella propria casa e la mantiene, come è
giusto, ma che per un discutibile concetto di privacy è stata messa
nell'impossibilità di svolgere nei suoi confronti quell'intervento
educativo/protettivo che forse avrebbe potuto evitare il fallimento della sua
carriera scolastica.
Di fronte a questi eccessi che fanno a pugni col senso comune, indotti anche
dall'atteggiamento delle Vestali della privacy che dalla roccaforte della loro authority
(ma a quando un'Authority per la trasparenza?) hanno cercato di far
considerare la riservatezza un valore non mediabile, da collocare in posizione
di preminenza rispetto a tutti gli altri valori, quanto meno altrettanto
apprezzabili, della vita sociale - tra cui, perchè no? anche la legittima
aspirazione degli imprenditori a non essere oppressi più di tanto da lacci e
laccioli che aumentano i costi e riducono la loro già precaria competitività -
non c'è da meravigliarsi che si sia innestata una spirale di insofferenza che
sta portando la barca verso un nuovo giro di boa.
Ecco allora la scelta di intervenire dall'altro versante: se non si può
rafforzare la riservatezza perchè non provare a indebolire la trasparenza? Ed
ecco quindi la legge 15/2005, con la quale - come per primo ha denunciato
proprio Cammarata su questa rivista - gli spazi dell'accesso alla
documentazione vengono fortemente ridotti (vedi Il cittadino escluso: per legge e dalla legge).
In pratica con questa norma non si è fatto altro che legificare la
giurisprudenza più restrittiva del Consiglio di Stato in materia di 241. E non
a caso in un convegno del recente Forum PA la nuova legge è stata difesa, in
termini addirittura paradossali, dagli addetti ai lavori. Stando al comunicato
stampa ufficiale il Consigliere Cirillo, Capo del Dipartimento per il
coordinamento amministrativo, ha affermato che "le modifiche apportate alla
legge 241 (legge 2005, n.15) hanno introdotto due elementi innovativi nei
principi generali della PA: la pubblicità e la trasparenza. Una vera e propria
rivoluzione mutuata dal settore privato".
Se qualcuno non ci crede lo rinvio al comunicato stampa, reperibile qui.
Apprendiamo inoltre che nel corso della stessa tavola rotonda sarebbe stato
rilevato "il pericolo di una distorsione del concetto di accesso. L'accesso
ai documenti, infatti, non può essere considerato come un'azione diretta a
consentire una specie di controllo generalizzato sull'attività amministrativa
(...). Quindi può accedere agli atti della pubblica amministrazione solo chi
può dimostrare che il provvedimento o gli atti che si svolgono all'interno
del procedimento abbiano effetti diretti o indiretti anche nei suoi confronti".
Capito? Smettiamola con le distorsioni pericolose di chi pretenderebbe
addirittura di "controllare" l'amministrazione. Come si diceva una volta,
non si disturba il manovratore.
2. Copyleft contro Copyright
Superato sicuramente con il primo tema lo spazio-tempo concessomi sarò più
breve sul secondo. Del resto il rischio che i nemici della società aperta
riescano ad imporre anche qui le regole soffocandola nella vecchia rete dei loro
interessi è sin troppo noto. Come sappiamo, oggi in Europa uno dei punti chiave
di questo conflitto è l'eventuale decisione di consentire non solo il copyright
del software ma anche il brevetto delle sue tecniche. Ed è molto strano - o
magari non lo è affatto, se si pensa alla capacità di persuasione di certe
lobby - che le autorità europee si apprestino, forse, ad approvare un
provvedimento che farebbe solo gli interessi delle multinazionali americane e
metterebbe in discussione ogni possibilità di sviluppo autonomo dell'industria
europea del software.
All'estremo opposto di queste cerchie di interessi che prosperano sulla
società chiusa ci sono alcune persone che con il loro lavoro hanno prodotto gli
strumenti perché la comunità informatica mondiale potesse nascere e
svilupparsi in modo libero e aperto. Persone che vincolando legalmente le loro
creazioni avrebbero potuto arricchirsi a dismisura e non hanno mai pensato di
farlo. Possiamo solo immaginare cosa sarebbe successo alla Rete se al loro posto
ci fosse stato un mercante come Bill Gates.
Sto pensando a personaggi come Vinton Cerf e Robert Kahn che hanno creato i
protocolli su cui si regge Internet o come Tim Berners Lee, che al Cern ha
inventato gli strumenti perché potesse nascere e diffondersi il Web (e che da
allora, a capo del W3C, è riuscito a difenderne l'uniformità di linguaggio
contro quanti avrebbero voluto creare a loro uso e consumo dialetti proprietari
per riaffermare, anche qui, le loro vocazioni monopolistiche).
E' grazie a un personaggio come Tim Berners Lee che Internet è uscita dai
circoli degli addetti ai lavori ed è diventata uno strumento di comunicazione
universale tra le persone e tra i popoli. Uno strumento che nei prossimi anni
aumenterà ancora il suo ritmo di diffusione specie nel Terzo mondo: entro il
2005 si prevede di arrivare a 1 miliardo di navigatori on line con oltre il 50%
dell'utenza connessa wireless, e secondo EtForecast la maggior parte di
questa crescita sarà da attribuire allo sviluppo in Asia e America Latina.
Purtroppo, come sappiamo, la febbre dell'intolleranza e la spinta all'odio
verso il diverso sono oggi di casa in quasi ogni parte del pianeta. Ma se c'è
una possibilità che un domani non troppo lontano le persone di tutto il mondo
possano parlarsi, capirsi e riconoscersi come simili, questa è legata a
Internet. Se c'è una possibilità che i contrasti possano attenuarsi e dare
luogo a una convivenza meno conflittuale, è legata a Internet.
E per questo motivo sarebbe desiderabile che dall'incontro per il decennale
di questa rivista - che tanto ha fatto e sta facendo per una società aperta
- venisse la proposta di dare un giusto riconoscimento alla persona che, come
dicevo, ha creato i presupposti perché la Rete, e con essa la società aperta,
possa svilupparsi.
Penso che non potrebbe esserci occasione più propizia per dare l'avvio a una
sottoscrizione internazionale attorno a un documento che inviti gli accademici
di Stoccolma ad attribuire il prossimo premio Nobel per la pace all'informatico
Tim Berners-Lee. Lo meriterebbe certo di più di quanto lo abbia meritato il
diplomatico Henry Kissinger.
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