"Comunicare è vivere" non è solo il messaggio di uno spot di Telecom
Italia firmato da Spike Lee, ma una costante dell'esperienza umana. Dalla
tavoletta di cera, alla pergamena vergata dall'amanuense, a Gutenberg e quindi
al bit, è cambiato il mezzo, ma il contenuto è rimasto invariato. L'uomo ha
necessità di comunicare, di scambiare informazioni; è un elemento costitutivo
essenziale della persona e della personalità. L'informazione è il passato
(la storia) e il presente (la cultura, il divertimento, l'economia e purtroppo
anche la guerra).
Il "possesso" dell'informazione è cruciale e in tempi meno sospetti lo
scriveva Orwell in "1984". Il lavoro di Winston Smith, infatti, era adeguare
le notizie passate per renderle coerenti al presente e quindi rimuovere la
memoria dei voltafaccia e delle contraddizioni. La disponibilità dell'informazione
non è dunque solamente un fattore meramente edonistico o filosofico, essa
costituisce un valore politico e, oggi più che mai, economico.
Altri interventi in questo forum hanno dimostrato quale sia il terreno in cui
avviene l'intersezione tra pretese proprietarie sull'informazione e
posizioni soggettive dei singoli (vedi, fra gli altri Utenti, consumatori, cittadini: gli
sviluppi della società dell'informazione di Dante Picca). Uno degli aspetti
più singolari, a mio avviso, è rappresentato dalla peculiarità della
posizione dei rivendicanti le prime, i quali fanno appello alla creatività, all'ingegno,
anteponendo un velo, nemmeno tanto opaco, al vero contenuto della posizione
tutelata, che è essenzialmente patrimoniale, in contrapposizione alle
situazioni soggettive dei clienti/fruitori, nelle quali vengono in
considerazione diritti di non poco momento, primo fra tutti quello della
libertà di espressione.
Tuttavia, se il conflitto tra le ragioni (essenzialmente economiche) dell'industria
culturale e i diritti degli utenti finali ha una precisa giustificazione, assume
invece i caratteri dell'abuso l'introduzione di sistemi di protezione che
limitano le possibilità di fruizione di contenuti creati dall'utente finale
medesimo. Si potrà, infatti, discutere nel primo caso dell'impatto sull'efficienza
complessiva del sistema, sulla tutela dell'autore, e così via, proprio
perché nella fattispecie è logico che il titolare dei diritti cerchi, anche
con la tecnologia, di spostare a suo favore il punto di equilibrio tra il suo
interesse a massimizzare il ritorno economico di ogni atto di fruizione, mentre
l'utente finale è tendenzialmente propenso a cogliere ogni possibile
occasione di utilizzazione dell'opera dell'ingegno acquistata (lettore
portatile, copia su più supporti, e così via, secondo lo schema che IpJustice
definisce come space or time-shifting).
Nel secondo caso, invece, il conflitto tra la posizione dell'industria e
quella degli utenti implica problemi più delicati e a rischio. Se infatti le
misure tecnologiche di protezione sono costruite in maniera tale da incidere in
misura fortemente restrittiva sulla possibilità di fruizione di opere o
contenuti creati dall'utilizzatore finale, sulle quali quindi non esistono
diritti di terzi, allora si determina una incomprensibile intrusione nella sfera
anche patrimoniale altrui, e l'affermazione di una posizione dominante che
trascende scopi e funzione della protezione dei diritti di proprietà
intellettuale.
Un esempio esiste già ed ha provocato reazioni vivacissime. Com'è noto,
gli apparecchi fotografici digitali di un certo livello sono in grado di
scattare fotografie in un formato "grezzo" (c.d. RAW), che consente
la maggior libertà di elaborazione e correzione di parametri fondamentali senza
degradazione della qualità. In questo modo il fotografo può avere il massimo
controllo sul prodotto del suo scatto, e ciò riveste particolare importanza per
i professionisti del settore. Uno dei parametri principali è il c.d. "bilanciamento
del bianco", che consente di variare la scala tonale dei colori dell'immagine
in modo da raggiungere la massima fedeltà di riproduzione, ovvero di
intervenire in modo creativo.
La Nikon, nel suo ultimo modello dedicato al mercato professionale, ha
introdotto un meccanismo di cifratura delle informazioni relative al
bilanciamento del bianco negli scatti in formato raw. In questo modo solo
il software di elaborazione predisposto dalla stessa società sarebbe stato in
grado di intervenire sui file in maniera completa ed esatta. In questo caso non
siamo di fronte alla "solita" contrapposizione sistema proprietario/sistema
aperto, ma ad un passo involutivo ulteriore. La cifratura delle informazioni è
stata vista dal pubblico non solo come una inaccettabile limitazione dei diritti
dei fotografi, ma soprattutto una specie di "esproprio" dei diritti
medesimi, in quanto incide sulle possibilità di utilizzazione di un'opera che
è stata creata dal cliente finale e sulla quale il produttore dell'hardware
non ha diritto alcuno.
Il rischio di una operazione di reverse engineering è di incorrere
negli strali del DMCA, che prevede anche sanzioni penali per la rimozione di
misure tecnologiche di protezione. La rilevanza della legislazione americana è
fuori discussione, dal momento che la regolamentazione del mercato degli Stati
Uniti costituisce un fattore critico nelle scelte produttive delle software
house. In altri termini, ciò che non sia lecito negli USA non è, per i
produttori di software, lecito nel resto del mondo, non essendo economico
scrivere prodotti differenti, né essendo ragionevolmente possibile escludere
dalla distribuzione un mercato così rilevante come quello americano.
Le prospettive di questo fatto sono di tutto rilievo. Il rischio di incorrere
nelle ire della normativa penale sicuramente tratterrà gli operatori dallo
sviluppare prodotti che aggirino la protezione, ovvero li spingerà a scrivere
software che ottenga un risultato analogo attraverso procedimenti di emulazione,
senza però ottenere il medesimo risultato finale in termini di qualità.
E il "povero" utente? Sarà costretto ad utilizzare gli strumenti posti a
disposizione dal produttore dell'hardware, indipendentemente dal loro livello
qualitativo. Per un professionista, nel settore fotografico, ciò può
significare azzerare le procedure di lavoro per ricominciare da capo.
L'introduzione di sistemi di protezione di questo tipo si sta espandendo a
settori merceologici ben più diffusi (Andrea Monti ha citato l'esempio di un
telefono cellulare, vedi DRM: l'inaccettabile limitazione dei diritti dell'utente),
con la conseguenza che l'incorporazione degli strumenti di protezione
direttamente nell'hardware di riproduzione introdurrà limiti agli utenti
nella fruizione di qualsiasi opera, anche se prodotta autonomamente,
comprese - per assurdo - anche le foto ed i filmini delle vacanze.
Questo possibile sviluppo introduce seri problemi di conflitto tra normativa
antitrust e diritto della proprietà intellettuale, fino ad oggi risolti in
linea generale nel senso della prevalenza della tutela del secondo sulla prima.
Se il trend industriale sarà in questa deprecabile direzione, allora
sarà opportuno un doveroso ripensamento delle regole affinché la zona franca
dalle disposizioni sulla concorrenza della quale ha fino ad oggi goduto il
settore della proprietà intellettuale non degeneri in un monopolio che si pone
in totale contraddizione con il concetto stesso di innovazione (per un'analisi
del problema si veda http://www.luminous-landscape.com/essays/raw-law.shtml;
ancorché il saggio sia basato sulla disciplina canadese, i principi generali
appartengono alla generalità delle normative antitrust).
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