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Le relazioni - 32

Proprietà intellettuale, antitrust e diritti degli utenti

di Daniele Coliva* - 08.06.05
 
"Comunicare è vivere" non è solo il messaggio di uno spot di Telecom Italia firmato da Spike Lee, ma una costante dell'esperienza umana. Dalla tavoletta di cera, alla pergamena vergata dall'amanuense, a Gutenberg e quindi al bit, è cambiato il mezzo, ma il contenuto è rimasto invariato. L'uomo ha necessità di comunicare, di scambiare informazioni; è un elemento costitutivo essenziale della persona e della personalità. L'informazione è il passato (la storia) e il presente (la cultura, il divertimento, l'economia e purtroppo anche la guerra).

Il "possesso" dell'informazione è cruciale e in tempi meno sospetti lo scriveva Orwell in "1984". Il lavoro di Winston Smith, infatti, era adeguare le notizie passate per renderle coerenti al presente e quindi rimuovere la memoria dei voltafaccia e delle contraddizioni. La disponibilità dell'informazione non è dunque solamente un fattore meramente edonistico o filosofico, essa costituisce un valore politico e, oggi più che mai, economico.

Altri interventi in questo forum hanno dimostrato quale sia il terreno in cui avviene l'intersezione tra pretese proprietarie sull'informazione e posizioni soggettive dei singoli (vedi, fra gli altri Utenti, consumatori, cittadini: gli sviluppi della società dell'informazione di Dante Picca). Uno degli aspetti più singolari, a mio avviso, è rappresentato dalla peculiarità della posizione dei rivendicanti le prime, i quali fanno appello alla creatività, all'ingegno, anteponendo un velo, nemmeno tanto opaco, al vero contenuto della posizione tutelata, che è essenzialmente patrimoniale, in contrapposizione alle situazioni soggettive dei clienti/fruitori, nelle quali vengono in considerazione diritti di non poco momento, primo fra tutti quello della libertà di espressione.

Tuttavia, se il conflitto tra le ragioni (essenzialmente economiche) dell'industria culturale e i diritti degli utenti finali ha una precisa giustificazione, assume invece i caratteri dell'abuso l'introduzione di sistemi di protezione che limitano le possibilità di fruizione di contenuti creati dall'utente finale medesimo. Si potrà, infatti, discutere nel primo caso dell'impatto sull'efficienza complessiva del sistema, sulla tutela dell'autore, e così via, proprio perché nella fattispecie è logico che il titolare dei diritti cerchi, anche con la tecnologia, di spostare a suo favore il punto di equilibrio tra il suo interesse a massimizzare il ritorno economico di ogni atto di fruizione, mentre l'utente finale è tendenzialmente propenso a cogliere ogni possibile occasione di utilizzazione dell'opera dell'ingegno acquistata (lettore portatile, copia su più supporti, e così via, secondo lo schema che IpJustice definisce come space or time-shifting).

Nel secondo caso, invece, il conflitto tra la posizione dell'industria e quella degli utenti implica problemi più delicati e a rischio. Se infatti le misure tecnologiche di protezione sono costruite in maniera tale da incidere in misura fortemente restrittiva sulla possibilità di fruizione di opere o contenuti creati dall'utilizzatore finale, sulle quali quindi non esistono diritti di terzi, allora si determina una incomprensibile intrusione nella sfera anche patrimoniale altrui, e l'affermazione di una posizione dominante che trascende scopi e funzione della protezione dei diritti di proprietà intellettuale.

Un esempio esiste già ed ha provocato reazioni vivacissime. Com'è noto, gli apparecchi fotografici digitali di un certo livello sono in grado di scattare fotografie in un formato "grezzo" (c.d. RAW), che consente la maggior libertà di elaborazione e correzione di parametri fondamentali senza degradazione della qualità. In questo modo il fotografo può avere il massimo controllo sul prodotto del suo scatto, e ciò riveste particolare importanza per i professionisti del settore. Uno dei parametri principali è il c.d. "bilanciamento del bianco", che consente di variare la scala tonale dei colori dell'immagine in modo da raggiungere la massima fedeltà di riproduzione, ovvero di intervenire in modo creativo.

La Nikon, nel suo ultimo modello dedicato al mercato professionale, ha introdotto un meccanismo di cifratura delle informazioni relative al bilanciamento del bianco negli scatti in formato raw. In questo modo solo il software di elaborazione predisposto dalla stessa società sarebbe stato in grado di intervenire sui file in maniera completa ed esatta. In questo caso non siamo di fronte alla "solita" contrapposizione sistema proprietario/sistema aperto, ma ad un passo involutivo ulteriore. La cifratura delle informazioni è stata vista dal pubblico non solo come una inaccettabile limitazione dei diritti dei fotografi, ma soprattutto una specie di "esproprio" dei diritti medesimi, in quanto incide sulle possibilità di utilizzazione di un'opera che è stata creata dal cliente finale e sulla quale il produttore dell'hardware non ha diritto alcuno.

Il rischio di una operazione di reverse engineering è di incorrere negli strali del DMCA, che prevede anche sanzioni penali per la rimozione di misure tecnologiche di protezione. La rilevanza della legislazione americana è fuori discussione, dal momento che la regolamentazione del mercato degli Stati Uniti costituisce un fattore critico nelle scelte produttive delle software house. In altri termini, ciò che non sia lecito negli USA non è, per i produttori di software, lecito nel resto del mondo, non essendo economico scrivere prodotti differenti, né essendo ragionevolmente possibile escludere dalla distribuzione un mercato così rilevante come quello americano.
Le prospettive di questo fatto sono di tutto rilievo. Il rischio di incorrere nelle ire della normativa penale sicuramente tratterrà gli operatori dallo sviluppare prodotti che aggirino la protezione, ovvero li spingerà a scrivere software che ottenga un risultato analogo attraverso procedimenti di emulazione, senza però ottenere il medesimo risultato finale in termini di qualità.

E il "povero" utente? Sarà costretto ad utilizzare gli strumenti posti a disposizione dal produttore dell'hardware, indipendentemente dal loro livello qualitativo. Per un professionista, nel settore fotografico, ciò può significare azzerare le procedure di lavoro per ricominciare da capo.
L'introduzione di sistemi di protezione di questo tipo si sta espandendo a settori merceologici ben più diffusi (Andrea Monti ha citato l'esempio di un telefono cellulare, vedi DRM: l'inaccettabile limitazione dei diritti dell'utente), con la conseguenza che l'incorporazione degli strumenti di protezione direttamente nell'hardware di riproduzione introdurrà limiti agli utenti nella fruizione di qualsiasi opera, anche se prodotta autonomamente, comprese - per assurdo - anche le foto ed i filmini delle vacanze.

Questo possibile sviluppo introduce seri problemi di conflitto tra normativa antitrust e diritto della proprietà intellettuale, fino ad oggi risolti in linea generale nel senso della prevalenza della tutela del secondo sulla prima. Se il trend industriale sarà in questa deprecabile direzione, allora sarà opportuno un doveroso ripensamento delle regole affinché la zona franca dalle disposizioni sulla concorrenza della quale ha fino ad oggi goduto il settore della proprietà intellettuale non degeneri in un monopolio che si pone in totale contraddizione con il concetto stesso di innovazione (per un'analisi del problema si veda http://www.luminous-landscape.com/essays/raw-law.shtml; ancorché il saggio sia basato sulla disciplina canadese, i principi generali appartengono alla generalità delle normative antitrust).
 

* Avvocato in Bologna

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