Il 25 maggio 2018 sarà applicabile il Regolamento UE 2016/679 del Parlamento e
del Consiglio del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche
con riguardo al trattamento dei dati personali nonché alla libera circolazione
degli stessi (frequentemente citato anche come GDPR – General Data Protection
Regulation), che supererà le disposizioni della Direttiva 95/46/EC sulla
protezione dei dati (cfr. www.eugdpr.org).
A distanza di oltre vent’anni dalla precedente disciplina
europea generale della materia, il nuovo regolamento è chiamato a confrontarsi
con uno scenario tecnologico nettamente diverso. La c.d. società dell’informazione
si caratterizza infatti per l’assoluta pervasività: il social networking, il
cloud e l’ubiquitous computing, l’internet delle cose, big data analytics
e così via non solo rappresentano armi di aggressione della riservatezza assai
affilate, ma programmaticamente si imbevono dei dati personali degli utenti.
Numerose disposizioni del GDPR avranno un impatto
significativo e pertanto non sorprende che i cultori dell’informatica
giuridica si siano concentrati negli ultimi mesi sull’interpretazione di
alcuni passaggi di un testo che presenta non poche oscurità (e che, come già
riscontrato in altre occasioni, reca una traduzione in italiano discutibile).
Un articolo spesso citato è l’art. 25, che la dottrina
commenta favorevolmente in quanto ricettivo di due principi fondamentali: quello
della c.d. "privacy by design" e della c.d. "privacy by default"
(che si affiancano al principio c.d. di "accountability" – cfr. art.
5 u.c.).
Ebbene, che il GDPR si ispiri, fra gli altri, a questi
principi è considerazione certamente corretta. Che l’art. 25 li implementi è
pacifico. La stessa rubrica lo attesta in modo inequivocabile.
Ma occorre, secondo lo scrivente, prestare la massima
attenzione nell’interpretazione di queste formule lessicali.
Il rischio è quello di essere indotti in errore dalla
rubrica dell’art. 25 e dalle definizioni comunemente date a questi concetti.
Mentre la maggior parte degli interpreti si limita a specificare, infatti, che
la protezione dei dati deve essere garantita "fin dalla progettazione"
e "per impostazione predefinita", occorre rammentare che l’art. 25
richiede degli adempimenti assai più rilevanti ed impegnativi.
Come sottolineato da N. Fabiano, "Privacy by Design:
l’approccio corretto alla protezione dei dati personali", in Diritto
24, la migliore esplicitazione del concetto di "privacy by design",
locuzione ampiamente utilizzata in USA e Canada, è contenuta negli interventi
di Ann Cavoukian, Information and Privacy Commissioner dell’Ontario.
Negli anni Novanta, quando ci si è resi conto dell’impatto
delle nuove tecnologie sul diritto di privacy degli utenti, si è raccomandata l’implementazione
delle c.d. PET (Privacy Enhancing Technologies): tecnologie, per così dire
"aggiuntive", in grado di mitigare questi indesiderati effetti,
preservando la funzionalità del sistema informativo. Ad es. si è suggerito di
crittografare le basi di dati personali raccolti.
L’introduzione della "privacy by design" si
poneva l’obiettivo di superare questo approccio ex post. Secondo Cavoukian in
tanto è possibile attribuire una vera protezione ai dati dell’individuo, in
quanto si metta l’utente ed i suoi diritti al centro dell’analisi e quindi
ex ante si progetti un nuovo bene/servizio in un’ottica rispettosa della
privacy.
La 32ma Conferenza mondiale dei Garanti della privacy (ICDPPC International
Conference of Data Protection & Privacy Commissioners), tenutasi a
Gerusalemme nel 2010, ha accolto favorevolmente tale cambio di paradigma,
adottando la Resolution on Privacy by design.
La risoluzione elenca fra i principi, ex plurimis, l’adozione
di un’ottica proattiva e non reattiva, preventiva e non rimediale, invoca una
privacy "Embedded into Design" ed una tutela della privacy "as
the Default".
In questo senso il concetto di "privacy by design"
altro non costituirebbe che una specificazione della "privacy by default".
Occorre tutelare il diritto alla privacy per impostazione predefinita e, per
poterlo fare efficacemente, bisogna occuparsene sin dall’inizio, sin dalla prima
ideazione di un processo.
Così colte anche le ragioni storiche dell’utilizzo di
queste formule lessicali, occorre tornare ad analizzare l’art. 25 del GDPR.
Vero che al primo comma, con formula assai ridondante, esso
specifica che "[…] sia al momento di determinare i mezzi del trattamento
sia all'atto del trattamento stesso il titolare del trattamento mette in atto
misure tecniche e organizzative adeguate […] volte ad attuare in modo efficace
i principi di protezione dei dati […] e a integrare nel trattamento le
necessarie garanzie al fine di soddisfare i requisiti del presente regolamento e
tutelare i diritti degli interessati".
Ma al secondo comma esso specifica che "Il titolare del
trattamento mette in atto misure tecniche e organizzative adeguate per garantire
che siano trattati, per impostazione predefinita, solo i dati personali
necessari per ogni specifica finalità del trattamento. Tale obbligo vale per la
quantità dei dati personali raccolti, la portata del trattamento, il periodo di
conservazione e l'accessibilità. In particolare, dette misure garantiscono che,
per impostazione predefinita, non siano resi accessibili dati personali a un
numero indefinito di persone fisiche senza l'intervento della persona
fisica".
Il secondo comma enuncia quindi un principio assai diverso,
ovvero quello della minimizzazione (invero richiamato ad esempio, assieme alla
pseudonimizzazione, anche dal primo comma): non possono essere trattati dati
personali ulteriori rispetto a quelli minimi indispensabili per ogni specifica
finalità. I dati raccolti non possono essere conservati per tempi ulteriori
rispetto a quelli minimi necessari. E ancora non è consentito l’accesso ad un
numero indefinito di dati personali da parte di macchine ("senza l’intervento
della persona fisica").
Tali ulteriori contenuti non possono essere sottaciuti o
svalutati, a tacer d’altro in considerazione del richiamo dell’art. 25
contenuto nell’art. 83, comma 2, lett. d (le eventuali sanzioni saranno
comminate dall’Autorità di controllo avute anche presenti le misure tecniche
ed organizzative messe in atto ai sensi degli artt. 25 e 32).
Visto che l’attuazione di una disciplina passa anche per la
correttezza delle informazioni che vengono veicolate agli operatori pratici,
suggerirei quindi di abbandonare il riferimento alla "privacy by default",
concetto del resto già contenuto in quello di "privacy by design" e
di riferirsi al principio di minimisation o minimizzazione.
Forse basterebbe però richiamarsi al c.d. principio di
necessità nel trattamento dei dati, contenuto nell’art. 3 del D.Lgs.
30/06/2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali italiano,
il quale, giova rammentarlo, recita "I sistemi informativi e i programmi
informatici sono configurati riducendo al minimo l'utilizzazione di dati
personali e di dati identificativi, in modo da escluderne il trattamento quando
le finalità perseguite nei singoli casi possono essere realizzate mediante,
rispettivamente, dati anonimi od opportune modalità che permettano di
identificare l'interessato solo in caso di necessità".
Detto articolo non dovrà quindi considerarsi in alcun modo
superato dalle nuove disposizioni europee, ma semmai rafforzato ed ulteriormente
ampliato nella sua sfera di applicazione.
Per concludere occorre specificare che questo approccio
soggettivo alla privacy, che mette il soggetto uti singulus al centro della
tutela giuridica, a cui il GDPR in larga parte si ispira, con buona probabilità
si dimostrerà anch’esso insufficiente per respingere efficacemente le
aggressioni alla privacy perpetrate dall’analisi predittiva (big data
analytics ed intelligenza artificiale), essendo dimostrato che la fiducia nei
confronti del consenso informato degli utenti è malriposta (cfr. Solove, "Introduction:
Privacy Selfmanagement and The Consent Dilemma", in Harvard Law Review,
2013, p. 1880 ss.).
Maggiori probabilità di successo possono avere i meccanismi
di certificazione nonché la previsione di sigilli e marchi di protezione dei
dati (disciplinati dagli artt. 42 e ss. e richiamati dall’ultimo comma dell’art.
25 del GDPR). Sul punto si condividono quindi le riflessioni espresse da
Mantelero, "Responsabilità e rischio nel Reg. UE 2016/679", in
Nuove leggi civ. comm., 2017, 1, 144.
* Professore a contratto di
Informatica giuridica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano.
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