Col decreto legislativo n. 179, pubblicato nella G.U. del 13
settembre 2016, il codice dell’amministrazione digitale ha subito la sesta
modifica strutturale nel corso dei suoi primi dodici anni di vita1.
Com’è noto, il decreto legislativo n. 82 del 2005, che
inizialmente avrebbe dovuto limitarsi a raccogliere in un solo testo le norme
relative all’introduzione delle ICT nella pubblica amministrazione e sulla
formazione ed archiviazione dei documenti su supporto informatico, ha esteso
audacemente (come per gli altro «codici» prodotti dalla legge di
semplificazione del 2001) il proprio raggio d’azione sino a toccare la
complessa materia del valore probatorio dei documenti informatici, secondo una
logica di ultra-specializzazione normativa che porta il legislatore ad inseguire
continuamente l’evoluzione delle conoscenze scientifiche nell’ansia, tutta
italiana, di normare ogni aspetto dei rapporti tra Stato, cittadini ed imprese.
Il prodotto di questa sorta di tecno-diritto, per tutti gli
interventi legislativi di questo tipo (e, particolarmente, per le
«codificazioni» di settore), è un corpo di norme vacillanti e settoriali,
quasi sempre scoordinate dai codici (quelli veri) delle norme fondamentali del
diritto civile e penale e delle norme processuali.
Anche il nuovo intervento correttivo, a quanto si legge nella
relazione di accompagnamento allo schema del decreto legislativo, era necessario
per «conformare» le norme dell’ordinamento italiano al testo del regolamento
comunitario n. 910 del 2014 «…in un'ottica di riorganizzazione,
razionalizzazione, riordino normativo e semplificazione» del complesso testo
normativo. Tuttavia, lasciando agli studiosi del diritto dell’Unione europea l’arduo
compito di spiegare il motivo per cui un regolamento comunitario, direttamente
applicabile in ciascuno egli Stati membri ex art. 288 TFUE, renda necessario un
immediato adattamento dell’ordinamento interno, è evidente che, al di là
delle buone intenzioni, il nuovo decreto non solo ha ulteriormente complicato,
anziché semplificare, il lavoro dell’interprete, ma ha anche omesso di porre
rimedio ad alcuni dei problemi più gravi da tempo segnalati dalla dottrina più
attenta e dalla giurisprudenza.
Uno dei principali problemi interpretativi prodotti dalle
norme del CAD è legato alla disciplina dei documenti informatici muniti di
firma elettronica non avanzata e al rapporto che lega questi documenti, sul
piano probatorio, ai documenti informatici non firmati, che costituiscono ancora
la maggior parte delle prove documentali prodotte nel giudizio civile dalle
parti processuali.
L’art. 2712 cod. civ. stabilisce, dopo le modifiche
introdotte nel 2010, che le riproduzioni «informatiche» (cioè: su un supporto
informatico), come ogni altra «rappresentazione meccanica», formano «piena
prova» dei fatti e delle cose rappresentate «se colui contro il quale sono
prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti ed alle cose medesime».
Ciò significa che i documenti informatici privi di firma,
tra cui vanno compresi i comuni messaggi di posta elettronica, i fax e le
riproduzioni di una pagina web, se non espressamente disconosciuti, assumono
valore di prova nel processo come la scrittura privata.
Se, ad esempio, la prova del conferimento di un incarico
professionale è contenuta in un messaggio di posta elettronica (firmato, come
di solito accade, soltanto con l’indicazione stampata del nome del mittente),
o in un fax, il giudice deve ritenere quel fatto indiscutibilmente provato se il
documento (ovvero la conformità della riproduzione ex machina ai fatti
rappresentati) non è stato disconosciuto.
Se, invece, come avviene per una fotografia di cui sia negato
che rappresenti quella persona o quel luogo, viene contestata la conformità del
documento informatico ai fatti rappresentati, il documento resta acquisito agli
atti del processo come prova liberamente apprezzabile dal giudice, anche in
assenza di un’istanza di verificazione.
Il disconoscimento, com’è noto, non può limitarsi ad una
semplice negazione del fatto, ma deve essere effettuato in modo chiaro,
circostanziato ed esplicito; deve cioè concretizzarsi nell'allegazione della
prova della assenza di corrispondenza tra realtà dei fatti e quanto risulta dal
documento prodotto in giudizio. E, in ogni caso, il disconoscimento non inficia
del tutto la portata probatoria di tali riproduzioni ma le degrada a livello di
presunzioni semplici poiché il giudice, all’esito del processo, può sempre
ritenere ugualmente provati i fatti rappresentati nel messaggio di posta
elettronica, nella pagina web o nel fax sulla base di tutti gli altri elementi
di prova acquisiti nel corso del processo.
Questo regime probatorio del documento informatico non munito
di firma è inspiegabilmente diverso, e più rigoroso, rispetto al regime
probatorio introdotto dal CAD per i documenti informatici muniti di una firma
elettronica.
Il regolamento UE n. 910 del 23 luglio 2014 definisce la
firma elettronica come l’insieme dei «dati in forma elettronica, acclusi
oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici e
utilizzati dal firmatario per firmare» (art. 3 n. 10); sicché, ancorché
«debole», rispetto alla firma avanzata (che produce per il documento
informatico gli stessi effetti dell’art. 2702 del codice civile, assimilandolo
alla scrittura privata) una firma elettronica è pur sempre costituita da un
segno apposto sul documento e diretto ad individuarne l’autore.
In un documento firmato con PGP, ad esempio, la firma apposta
con la chiave privata del mittente è, sul piano tecnologico, in tutto simile
alla firma digitale, da cui si differenzia soltanto per l’assenza del
dispositivo di firma e, soprattutto, di un certificato qualificato.
Per il codice dell’amministrazione digitale un documento di
questo tipo è, sul piano probatorio, «liberamente valutabile in giudizio,
tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza,
integrità e immodificabilità (art. 21 comma 1), ed è rimesso, di fatto, alla
valutazione discrezionale del giudice.
Ciò significa, nei fatti, che il giudice è libero, a
prescindere dalle contestazioni della parte, di ritenere il documento non
attendibile (nonostante la firma) perché la tecnologia utilizzata per produrlo
è, a suo insindacabile giudizio, non idonea ad assicurare un ragionevole
margine di certezza sulla sua autenticità o integrità.
Questa scelta del legislatore delegato lascia,
inspiegabilmente, il giudice in balia della parte assistita dal difensore più
fantasioso (mi si passi il termine, dato il contesto scientifico di questo
dibattito) e disposto a paventare, per invalidare il documento, i più astuti
meccanismi di falsificazione o di alterazione in danno del suo cliente.
Un esempio del pericolo insito nell’allargamento della
discrezionalità del giudice in materie che presuppongono un’adeguata
conoscenza della tecnica, è dato dalle pronunce con cui alcuni giudici di
merito hanno dichiarato i file in formato PDF realizzati per scansione di
immagine non conformi alle regole tecniche dettate per la produzione dei
documenti nell’ambito del processo civile telematico, giungendo a dichiarare
inammissibile il ricorso per decreto ingiuntivo proposto su un documento
informatico derivato da una scansione di un documento cartaceo «…che non
consente operazioni di selezione e copia di parti, anziché derivare, come
prescritto, dalla trasformazione in documento *.pdf di un documento testuale»
poiché mancante «dei requisiti genetici indispensabili per dar valido corso ad
un procedimento telematico»2; senza considerare che le disposizioni
regolamentari sul c.d. processo telematico non incidono sui principi generali
del processo e se il documento, a prescindere dal formato con cui è trasmesso,
è leggibile, il raggiungimento dello scopo sana ogni ipotizzabile nullità
(come affermato autorevolmente dalle sezioni unite della Corte di cassazione3).
In altri termini, rendere un documento informatico munito di
firma elettronica «liberamente valutabile in giudizio» quanto al suo valore
probatorio equivale a considerare detto documento meno rilevante, nel giudizio,
di un documento che firme non ne ha. Perché, come detto, un documento non
firmato resta acquisito sino a che la parte contro cui esso è prodotto non
decida di contestarne motivatamente la conformità; mentre un documento firmato
con PGP (per tornare al nostro esempio) può essere escluso dal processo sulla
base di un semplice dubbio del giudice sulle sue «caratteristiche oggettive».
Se il legislatore delegato, nel suo impeto di
«semplificazione», avesse dedicato maggiore attenzione a
questo e ad altri paradossi creati dalle continue modifiche del CAD avremmo
oggi, forse, un problema in meno da risolvere nelle aule di giustizia e un
incentivo in più all’uso convinto e diffuso, anche in Italia, delle
tecnologie dell’informazione.
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1. In precedenza hanno introdotto, a vario
titolo, modifiche al testo originario del c.a.d., approvato nel 2005, il d. lgs.
4 aprile 2006, n. 159 (in SO n.105, relativo alla G.U. 29/04/2006, n.99), il d.
lgs. 30 dicembre 2010, n. 235 (in SO n.8, relativo alla G.U. 10/01/2011, n.6),
il d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (in SO n.194, relativo alla G.U. 19/10/2012,
n.245) , convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, il
d.l. 24 giugno 2014, n. 90 (in G.U. 24/06/2014, n.144), convertito con
modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114 e il d.l. 27 giugno 2015, n. 83
(in G.U. 27/06/2015, n.147), convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto
2015, n. 132.
2. Tribunale di Roma, 13/07/2014.
3. Cass., sez. un., 18/04/2016, n. 7665
* Presidente di sezione della Corte di appello di Roma e docente di
informatica giuridica (ambito amministrativo) presso la LUISS "Guido Carli"
di Roma.
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