Il punto di partenza è costituito dal fatto che appare ormai
comune parlare di "impronta ecologica" dei prodotti, intendendosi per
tale tutta la complessa procedura necessaria ad individuare quale sia il costo
"sociale" della produzione. Funzionale a quella che viene chiamata
"economia circolare" (ossia il "riciclo" portato alla
massima espressione) è l’individuazione di tutti i costi che gravano sulla
procedura di fabbricazione e distribuzione (e smaltimento/riciclo) dei prodotti,
tenuto conto di ogni componente.
E, fin qui, nulla di nuovo.
Ai nostri giorni, tuttavia, occorre interrogarci sulle
conseguenze dell’economia digitale, cioè del progressivo spostamento degli
acquisti su dinamiche telematiche, incrementate dalle funzionalità, in tal
senso, di smartphone e tecnologie per i pagamenti NFC (e simili). Se è
così - e non pare potersi pensare seriamente diversamente -, accanto al costo
"ecologico" dei prodotti (e, soprattutto, dei servizi) via web (si
pensi, per fare un esempio allo spettacolare costo energetico dei server, ovvero
a quello della logistica sul quale ruotano economie multimiliardarie), a mio
avviso occorre prestare attenzione anche al dato "informativo".
Se comprate uno smartphone e non
"consegnate" una casella di posta elettronica, il telefonino
semplicemente non può essere utilizzato. Lo stesso dicasi per il personal
computer che è diventato più social che personal. Infatti se non
è "connesso" non funziona affatto, in barba alla circostanza, per
nulla secondaria, che potremmo averlo comprato, semplicemente, per archiviarci
dei contenuti che non abbisognano di alcuna connessione web.
L’eccessiva richiesta di dati personali (anche senza che
questi, come detto, siano realmente necessari
e finalizzati a quanto dichiarato...) finisce per diventare una
"impronta" rispetto al costo ed all’accesso ai prodotti/servizi. A
questo punto occorrerebbe aprire una riflessione su quanto la disponibilità di
queste informazioni non solo non vengano "retribuite" al proprietario
ma, al contrario, consentano, a chi le "pretende", di conseguire un
valore aggiunto in termini di business intelligence, ossia, in altre
parole, un vantaggio competitivo senza alcuna contropartita.
A prima vista, le internet major ci "fanno un
favore" nel renderci la vita più semplice, per altro verso vogliono sapere
"troppo" e non certo per conferirci solo vantaggi. Non appena avremo
reso disponibile ogni dato, secondo la notoria prassi del monopolista, vedrete
che ogni cosa ci sarà fatta pagare. Allora non sarà più possibile tornare
indietro.
Molti hanno dimenticato che la prima legge antitrust prese il
via, in America, per riconsiderare la crescita dello strapotere della Standard
Oil (che, va da sé, si occupava di petrolio, risorsa ancora
"principe" nonostante si parli di una Quarta Rivoluzione industriale),
l’informazione via web, invece, in virtù di "obblighi" nascenti dal
mezzo "tecnico" ha finito per creare un sistema oligopolistico
mondiale ancora più pericoloso, senza che qualcuno abbia voluto introdurre, per
tempo, i giusti correttivi. La strada di Qwant, tanto per fare un esempio legato
ai motori di ricerca, appare in decisa salita.
Se le informazioni concorrono alla ‘costruzione’ del
servizio, la loro quota-parte in termini di materia "prima" non solo
deve riverberarsi, in qualche misura, sul costo del servizio ma deve anche
essere opportunamente "evidenziata". Così facendo, l’interessato
– che, peraltro, è il "titolare" dei dati di cui parliamo –
potrà essere posto nelle condizioni di scegliere l’alternativa che, in
termini di rapporto costo/opportunità, sia maggiormente rispondente alla
propria "filosofia di vita". Questo determinerà una competizione tra
le imprese in cui si potrà comprendere quanto "pesano" i nostri dati.
Verso un’ecologia dell’informazione personale?
Queste poche righe sono in memoria di Stefano Rodotà (che
aveva capito tutto da tempo).
* Giurista specializzato nella
disciplina del commercio, la contrattualistica d’impresa e la tutela dei
consumatori.
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