Spesso il lavoro dell’archivista è scarsamente conosciuto
e, più spesso, poco riconosciuto. Eppure, le organizzazioni che aspirano alla
transizione digitale, nella piena consapevolezza metodologica e tecnica, hanno
bisogno anche degli archivisti. Una professione che dà efficacia alla
perfezione.
La professione di archivista non è mai stata semplice da
spiegare ai non addetti ai lavori. Anzi, spesso è confusa con una esecuzione di
procedure routinarie, prive di intelligenza emotiva. Al cambio di governance,
soprattutto quando la percezione del lavoro da parte dei superiori e dei
colleghi è di attività meccaniche e iterative – se non noiose – risulta
necessario spiegare la concezione dell’archivio, esaltandone l’importanza e,
in una parola, la semplice bellezza.
Già, ma in che modo? Facendo leva sul valore di fonte
primaria per la nostra storia? Oppure impostando il ragionamento sulla
trasversalità della gestione documentale come risorsa per le amministrazioni
pubbliche, dalla formazione alla conservazione dei documenti?
L’indolenza non appartiene agli archivisti. Per riordinare
un fondo, lasciato per anni in una cantina o in una soffitta, serve coraggio e
forza propulsiva, uniti a sagacia, intelligenza e logica ricostruttiva di legami
deboli. E i protocollisti? Sul solco della tradizione italiana del Dopoguerra,
lavorare negli archivi correnti è considerato (oggi, invero, molto meno) un
lavoro quasi degradante, se non punitivo.
Ma è solo colpa del mondo che non capisce o abbiamo qualche
colpa? Diciamoci pure la verità. Noi archivisti siamo in larga misura convinti
di valere di più di quello che il mondo ci attribuisce e spesso, nei nostri
incontri, nelle nostre liste di discussione, amiamo parlarci addosso,
lamentandoci di come un funzionario comunale non abbia ancora compreso cosa sia
il vincolo archivistico o il principio di provenienza. Insomma, sappiamo essere
maledettamente spocchiosi, nella convinzione che solo l’archivistica conosca
questi principi. Impossibile poter parlare a un ingegnere gestionale di
classificazione? Si deve adeguare il lessico e descrivere la "tassonomia
gerarchica funzionale". Ontologicamente è la stessa cosa, ma l’effetto
è profondamente diverso.
La dichiarazione di contesto, inoltre, appartiene a molte
altre discipline che, apparentemente, non avrebbero affinità con la nostra. Ad
esempio, quando un contabile descrive un impegno di spesa tramite il piano dei
conti sta utilizzando un titolario. Non solo: una voce di contabilità analitica
è intrinsecamente interrelazionata con la spesa corrispondente (vincolo
interno) e con il bilancio, soprattutto in presenza di un finanziamento da parte
di terzi (vincolo esterno).
Inoltre, sappiamo essere perniciosamente verticali (solo
corrente, solo di deposito, solo storico), quando il resto del mondo che
desidera lavorare nelle e per le organizzazioni pubbliche, deve necessariamente
ragionare in maniera trasversale. I silos concettuali della logica organizzativa
per funzioni omogenee, barricate negli steccati delle competenze, sono stati
abbattuti dalla gestione documentale (tutti utilizzano documenti) e dal digitale
(tutti utilizzano le risorse ICT).
La bellezza degli archivi risiede non tanto nelle miniature
conservate nei codici medioevali, quando piuttosto nell’essere di tutti e a
disposizione inderogabile di tutti, dall’archivio di Ebla all’archivio
digitale federale degli Stati uniti.
In una congiuntura in cui l’opinione pubblica e la
dirigenza discutono di trasparenza, nella vanagloria di conoscerne l’intima
essenza, abbiamo un’endiadi formidabile: "archivio & trasparenza,
perché archivio è trasparenza". Si tratta di un volano che il FOIA (D.Lgs.
33/2013, artt. 23 e 35) – pur declinato in modo italico, quindi migliorabile
– ci mette magistralmente a disposizione. L’accesso (documentale, civico,
generalizzato, potenziato, etc.) è legato alla trasparenza amministrativa,
cioè a un mondo che ha ancora bisogno degli archivisti.
C’è di più. Anche il più modesto tra i dirigenti o tra
gli amministratori ha un proprio archivio. Certo, nella piena inconsapevolezza
e, probabilmente, nel disinteresse di averlo, ma lo possiede. E ne risponde
anche penalmente, rischiando le sanzioni previste dall’art. 490 c.p. Risulta
preferibile citare il codice penale, in luogo delle sanzioni previste dal Codice
dei beni culturali, contenuto nel D.Lgs. 42/2004 anche perché dobbiamo fare
cessare la proposopea dell’archivio come bene culturale.
Da un lato, l’amministrazione archivistica dovrebbe tornare
sotto le cure del Ministero dell’interno, dall’altro sfumare l’enfasi e la
retorica con la quale tentiamo inutilmente di rabbonire un dirigente. Troppo
pochi coloro che hanno un bagaglio di letteratura scientifica collegato alla heritage.
Servirebbe troppo tempo e convincerli, dunque, risulterebbe un’operazione
antieconomica dall’esito incerto. Meglio, invece, puntare sulla gestione
documentale in ambiente digitale nativo, con il collegamento oltremodo
insostituibile dei rapporti tra processi, procedimenti e trasparenza
amministrativa.
Mi spiego. Un buon archivista conosce a memoria 5 normative:
- la legge 241/1990, autentico propedeutica giuridica e norma ponte tra l’azione
amministrativa e la documentazione amministrativa
- il DPR 445/2000, demiurgo del protocollo informatico e della gestione
documentale
- il D.Lgs. 82/2005, impalcatura (assieme alle rispettive regole tecniche)
di tutta l’amministrazione digitale, che ha bisogno incredibilmente
urgente di funzionari che sappiano di diplomatica e di informatica giuridica
- il Reg. UE 910/2014 (eIDAS), semplicemente presupposto del futuro degli
archivi in Europa
- il Codice civile, buon ultimo ma primo in tutto, perché a livello
metodologico e normativo, il concetto di atto, documento, scarto,
perfezione, efficacia, trasparenza sono presenti qui in maniera pervasiva e
assoluta, senza citare i necessari rinvii sul piano probatorio.
In conclusione, l’archivista è imprescindibile in ogni
organizzazione degna di questo nome. Tuttavia, non può imporsi in una logica
autoreferenziale, ma deve rendersi necessario attraverso le proprie conoscenze e
abilità, continuamente messe in discussione e perciò necessariamente
aggiornate. Per quanto possa sembrare una forzatura, può essere codificato come
un "prodotto". Bisogna fargli pubblicità, ma attraverso spot intrisi
di concretezza e renderlo indispensabile.
L’archivista, infatti, offre soluzioni specifiche a
problemi generali e, visto che nelle amministrazioni pubbliche vige il principio
di documentalità per gli atti amministrativi, deve essere in grado di spiegare
che, in conseguenza di tale principio e per poter essere efficace, ogni atto
deve essere registrato e conservato in maniera affidabile. Soltanto il pubblico
ufficiale che gestisce il sistema documentale può ergersi a garante del
prerequisito di affidabilità, in quanto terza parte fidata.
Nel concreto, un documento sottoscritto da un Ministro, da un
Sindaco, da un Dirigente esiste quando si è conclusa la fase della perfezione
giuridica. Tuttavia, è ancora inefficace, dal momento che non è stato ancora
registrato (a protocollo o a repertorio). Quando viene apposta o associata la
segnatura (numero di registrazione, data certificata e provenienza), il
documento risulta perfetto ed efficace. Per queste ragioni, l’archivista dà
efficacia alla perfezione giuridica. E lo fa rendendo persistente (attraverso un
documento) ciò che per intrinseca natura risulta evanescente (l’atto
giuridico).
Avremo modo di tornare sui temi della evanescenza e della
persistenza, in un connubio tra diplomatica, diritto amministrativo e
informatica giuridica, in un prossimo intervento in questo Forum.
* Direttore generale dell'Università degli
Studi dell'Insubria
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