Una pagina per riassumere il convegno di FORUM20: le sintesi degli
interventi, scritte dagli stessi autori. Per non disperdere le idee, le
proposte, le critiche di un rinato gruppo di esperti che, salutandosi alla fine
della riunione, si sono detti: «E non finisce qui».
Infatti le pagine dei contributi restano aperte per
incominciare a costruire il prossimo Forum.
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Gianni Buonomo
Vent'anni fa nasceva InterLex, la prima rivista telematica
pubblicata sul registro della stampa presso il tribunale di Roma col
numero 585/97.
InterLex riunì per la prima volta intorno ad un tavolo immaginario
giuristi, crittografi, ingegneri e curiosi puntando l'attenzione sulle
possibilità straordinarie (ma anche sui pericoli) legati all'uso
diffuso delle tecnologie dell'informazione.
InterLex fu la prima a parlare ad un vasto pubblico del recupero di
efficienza, di razionalità e di trasparenza legato all’introduzione
delle tecnologie dell’informazione nella P.A., della telemedicina, del
processo telematico, della protezione dei dati personali.
Per questo InterLex si impose immediatamente tra le pubblicazioni
specializzate come qualcosa a metà tra Wired (fondata quattro anni
prima in USA) e la EFF (Electronic Frontier Foundation), l'associazione
a tutela delle libertà civili nel mondo digitale che aveva sostenuto la
difesa di Phil Zimmermann, l'inventore di PGP accusato nel 1993 di avere
esportato tecnologia crittografica di interesse militare senza licenza,
il cui caso era stato archiviato solo un anno prima.
Zimmermann si era battuto contro l'anti-crime Bill (S266 - 1991) che
voleva imporre a tutti i fornitori dei servizi di comunicazione di
svelare, a richiesta del Governo USA, il contenuto delle comunicazioni
(anche in voce) trasmesse attraverso i sistemi di comunicazione. PGP,
distribuito in tutto il mondo fece "uscire il genio dalla
lampada" rendendo praticamente inutile l'approvazione della legge.
All'epoca il regolamento per l'esportazione USA considerava i sistemi di
crittografia con una chiave superiore a 40 bit di interesse militare
(ricordate Mosaic?)
Erano gli anno del Condor (Kevin Mitnick, chi l'ha dimenticato?), del
Rapporto Bangemann (1994) e della firma digitale.
Il 1997 è l'anno della legge Bassanini e della rete unitaria della P.A.
L'anno del principio di uguaglianza tra documenti informatici e
documenti cartacei. L'anno zero di quel mutamento radicale dei rapporti
tra cittadini e Stato che vede nella carta di identità elettronica
(art. 66 CAD) l'esempio più significativo (trasformando un documento
nato per identificare i soggetti ed evitare il fermo di identificazione,
in uno strumento per chiedere allo Stato l'erogazione di servizi).
In questi vent'anni sono cambiate molte cose, ma molti problemi restano
aperti (questo forum servirà anche a fare il punto della situazione).
E’ entrato in vigore, intanto il codice dell’amministrazione
digitale (il d.lgs. n. 82 del 2005) che porta con sé il record di
modifiche (SEI) in un settore (il diritto delle nuove tecnologie) che
tanto avrebbe bisogno del consolidarsi di riflessioni dottrinali e di
pronunce giurisprudenziali.
Uno dei problemi irrisolti, che ho cercato di segnalare nel mio
intervento, è quello del regime probatorio del documento informatico
non munito di firma è inspiegabilmente diverso, e più rigoroso,
rispetto al regime probatorio introdotto dal CAD per i documenti
informatici muniti di una firma elettronica.
Senza entrare nei dettagli, questa scelta del legislatore delegato
lascia, inspiegabilmente, il giudice in balia della parte assistita dal
difensore più (mi si passi il termine, dato il contesto scientifico di
questo dibattito) fantasioso e disposto a paventare, per invalidare il
documento, i più astuti meccanismi di falsificazione o di alterazione
in danno del suo cliente.
Sembra che il decreto correttivo del CAD, approvato il giorno 11
dicembre scorso dal Consiglio dei ministri abbia abrogato finalmente i
primi due commi dell’art. 21: sarebbe un grande passo avanti.
Questo è solo un esempio del pericolo insito nell’allargamento della
discrezionalità del giudice in materie che presuppongono un’adeguata
conoscenza della tecnica (pensiamo alle pronunce con cui alcuni giudici
di merito hanno dichiarato i file in formato PDF realizzati per
scansione di immagine non conformi alle regole tecniche dettate per la
produzione dei documenti nell’ambito del processo civile telematico,
giungendo a dichiarare inammissibile il ricorso per decreto ingiuntivo
presentato in un file perfettamente leggibile ma non conforme al
regolamento tecnico).
InterLex può svolgere un ruolo importante nella formazione di una
cultura diffusa del diritto e dell’informatica, diffondendo e
rafforzando una cultura dei diritti e delle libertà offerti da un uso
consapevole delle tecnologie dell’informazione, di cui questo Paese ha
ancora grande bisogno.
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Antonello Busetto
CITTADINANZA DIGITALE, questa sconosciuta! Da qui bisogna partire
visti i risultati ancora insufficienti del nostro Paese verso la
cosiddetta Società dell’Informazione.
Lavoro, Scuola, Giustizia, Sanità e Pubblica Amministrazione, vedono
sempre più il CITTADINO DIGITALE che comunica ed utilizza
Infrastrutture e Servizi ICT, usa Dati/Informazioni, rispetta nuove
Regole. Diritti e Doveri della cittadinanza digitale. Come dicevano i
nostri "padri", UBI SOCIETAS IBI IUS.
Avremo infatti nuove opportunità derivanti dalle tecnologie come
ad esempio quelle relative all’IOT e alla Domotica o alle wearable
ad uso sanitario o lavoristico. E ciò comporta nuove interrogativi
e nuove soluzioni. Si pensi ad esempio ai temi della Security,
della Privacy, o alle cosiddette Fake News.
Si dovrà curare il reskilling e gestire un problema
generazionale dei cosiddetti NAID (Nati Analogici ed Invecchiati
Digitali), dominando il cambiamento, che non va subito, attraverso una
trasformazione progressiva.
Un’occasione da cogliere e che va ben oltre gli interessi del settore
e riguarda Cloud, Big Data e Analytics,
Intelligenza Artificiale, Internet of Things, Mobility, Social.
Dobbiamo ridurre gli squilibri territoriali, curare il rapporto
domanda-offerta, aiutare le PMI, ma soprattutto aumentare qualità e
diffusione di competenze e cultura digitali. Mutuando le parole dell’On.le
Coppola, Presidente della Commissione Parlamentare sulla
Digitalizzazione e Innovazione della PA: "Non credo sia una
novità scoprire che il problema principale è dovuto al fattore umano,
alla mancanza di cultura, alle scarse professionalità".
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Gianni Penzo Doria
TRA AZIONE E DOCUMENTAZIONE.
Un atto esiste indipendentemente dal documento che lo rappresenta. Certo!
Il documento è indipendente da supporto, contenuto, alfabeto e mezzo di scrittura. D'accordo, lo sappiamo da almeno cinque secoli di diplomatica!
Qual è il problema, allora?
Le volte in cui bisogna ostendere in giudizio o a terze parti un atto, è necessario rappresentare il contenuto in un documento affidabile (exhibition for evidence).
Dopo eIDAS, siamo di fronte a un documento "dedocumentalizzato", fatto cioè di contenuti rappresentabili in una scala diacronica rivolta all'infinito.
Invece, per il valore probatorio, la scala dev'essere sincronica e in grado di esibire i contenuti in un momento determinato attraverso un documento opponibile a terzi.
La sfida del futuro – semplificata fin che si vuole – è tutta qui: per conservare un documento in ambiente digitale bisogna modificarlo continuamente, a parità di atto (e di contenuto giuridico). Per farlo, bisogna seguire costantemente il documento dalla fase di produzione, alla gestione, fino alla conservazione e affrontare le sfide tecnologiche che muteranno non tanto i contenuti, quanto piuttosto la capacità di rappresentarli.
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Giovanni Manca
L'identità digitale è al momento monopolizzata da SPID (il Sistema Pubblico di Identità Digitale per i cittadini e le imprese). Questo è confermato anche dal posizionamento che a SPID
viene riservato nel Piano Triennale 2017-2019. Nel medesimo piano si da spazio alla cosiddetta CIE 3.0 che pian piano viene emessa su tutto il territorio nazionale.
Incerto è il destino della CNS (Carta Nazionale dei Servizi) che continua ad essere emessa in associazione alla Tessera Sanitaria e si arricchisce anche di servizi compatibili; anche la Regione Lazio
ha attivato la procedura per ottenere il PIN e messo a disposizione servizi abilitati. Il destino è incerto perché nel Piano Triennale la CNS non è citata e nel Codice dell'amministrazione digitale l'accesso tramite
CNS è facoltativo per le pubbliche amministrazioni. Sempre sul tema CIE è utile sottolineare che il Team Digitale ha messo a disposizione delle librerie software per l'utilizzo del dispositivo come identità digitale.
Pur essendo una smart card a radio frequenza (RFID) la CIE può essere utilizzata tramite uno smart phone di generazione anche non recentissima. Naturalmente i servizi dovranno essere abilitati a questo meccanismo.
La tendenza attuale è quella di utilizzare la CIE come strumento di supporto all'identificazione abilitante all'ottenimento delle credenziali SPID. Ma alla data non siamo ancora in un situazione attiva.
Il momento nel quale capiremo se SPID è pronto a spiccare il volo è quello di sottoscrizione da parte dei soggetti privati delle convenzioni per offrire servizi conformi a codesti sistema pubblico.
Infatti in questa fase (che si dice imminente) cominceranno a determinarsi compensi per i Gestori dell'identità digitale e impegno per i fornitori di servizi a individuare il giusto equilibrio costi/vantaggi per la loro offerta.
Come al solito le ipotesi sono tante ma solo a consuntivo potremo comprendere se tutto è andato, ragionevolmente, secondo le previsioni.
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Paolo Nuti
"La libertà e la segretezza della corrispondenza e di
ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La
loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità
giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge."
Nonostante la chiarezza dell’Art.15 della Costituzione, a
valle di provvedimenti legislativi (Monopoli di Stato, AGCom) o
addirittura motu proprio (AGCM), alcune Autorità
Amministrative si sostituiscono dal 2006 a quella Giudiziaria nel
disporre limitazioni alla libertà di comunicazione Internet. Come se
quella telematica non fosse una forma di comunicazione.
L’Art.15 del GDPR "L'interessato ha il diritto di
ottenere dal titolare del trattamento la conferma che sia o meno in
corso un trattamento di dati personali che lo riguardano" è
sacrosanto.
L’Art. 2 prevede però la non applicazione del regolamento "ai
trattamenti di dati personali effettuati da una persona fisica per
l'esercizio di attività a carattere esclusivamente personale o
domestico". Amici e parenti con What’s Up sono dunque liberi
di invire a Zuckerberg i miei numeri di telefono presenti nella rubrica
dei loro telefonini.
Ma io, interessato senza login What’s Up, come potrò esercitare il
mio diritto di accesso?
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Andrea Monti
Le istituzioni scoprono solo ora la "schiavitu' elettronica", fatta di multinazionali extracomunitarie che controllano - letteralmente - la vita degli Stati e dei cittadini europei. Eppure che questo sarebbe accaduto era noto, documentato e soprattutto segnalato in tempi non sospetti fin dal 1999, quando Giancarlo Livraghi, fondatore e presidente di ALCEI, scrisse un documento intitolato appunto "E' compito delle istituzioni pubbliche liberarci dalla schiavitù elettronica".
Sono passati quasi venti anni da quel documento, presentato al Forum della società dell'informazione organizzato all'epoca dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ed
è successo l'incredibile. Non solo i cittadini sono costretti ad utilizzare tecnologie proprietarie delle quali non si conosce il funzionamento e che non danno reali garanzie per i diritti
individuali, ma lo Stato stesso si autocondannato a subire un regime di schiavitù tecnologica dal quale, ora, difficilmente potrà affrancarsi.
Eppure l'occasione di creare un mondo tecnologicamente libero e neutro, ad un certo punto, c'è stata e si chiama(va) software libero. Investimenti seri e mirati nello sviluppo di un ecosistema per la pubblica amministrazione basato su open source e formati aperti e compatibili avrebbero posto le basi per una vera liberazione informatica.
A fronte di questa occasione mancata, questi vent'anni hanno registrato una progressiva abdicazione di ruolo dei poteri dello Stato, erosi e indeboliti dallo strapotere delle autorità indipendenti.
Così, l'Autorità per le comunicazioni invade il campo della magistratura penale autonominandosi inquirente, giudicante ed esecutore dei casi di violazione del diritto d'autore online. Anche l'Antitrust - pur prevedendo il Codice penale dei precisi reati
che puniscono la contraffazione - ha messo in piedi i suoi procedimenti per "oscurare" siti accusati di violare norme penali, ma senza un giusto
processo.
E il Garante dei dati personali, nel corso degli anni, ha deliberatamente ignorato il rischio tecnologico posto da software e apparati strutturalmente insicuri, per poi "accorgersi" che esiste una "emergenza sicurezza informatica".
La condizione di diffusa ignoranza e malafede nella gestione dell'impatto delle tecnologie dell'informazione sulla vita di ciascuno di noi ha prodotto l'incredibile fenomeno dell'Internet of
Things: vulnerabile quanto i suoi predecessori "sconnessi", ma con l'aggravante che, oggi, non ci si può difendere sostenendo che la sicurezza informatica non è una priorità.
A corollario di questo atto di irresponsabilità c'è l'ignobile operazione culturale e commerciale diretta a legittimare l'esistenza della cosiddetta "intelligenza artificiale". Dimenticando che, a prescindere dalla
complessità di una macchina o un algoritmo, la responsabilità giuridica è sempre e solo dell'essere umano, assistiamo a fantasiosi tentativi di dare valore giuridico alle leggi della robotica di Asimov e
– per converso – a una nuova ondata di luddismo tecnologico.
Non è questo il mondo per il quale, vent'anni fa, abbiamo impegnato le nostre migliori energie. Ma resta
– pur con un sapore amaro – l'orgoglio di avere offerto una visione culturale e umana della rete che, ancora oggi, è di straordinaria attualità.
Grazie, Giancarlo Livgraghi.
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Sergio Pillon
Curare o essere in regola con il prossimo GDPR? Un medico riceve email dai
propri pazienti, messaggi whatsapp, invia loro suggerimenti e persino ricette elettroniche. Certamente si violano molte regole ma se non lo
facessimo la vita per i nostri pazienti sarebbe più difficile. La soluzione? Una sanità digitale vera, dove non occorra stampare una ricetta
eletttonica per portarla in farmacia, un sistema dove il paziente possa autorizzare con un pin il proprio medico ad accedere ad un referto, un
referto che arriva anche al medico se il paziente lo richiede. Una vera sanità digitale. Si può fare,
speriamo che il GDPR sia lo stimolo e non il limite della sanità digitale italiana.
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Paolo Ricchiuto
Sembra una battuta. Ma nel considerando n. 7 che prelude al Regolamento Europeo sulla protezione dei dati, si legge che l'intervento del Legislatore
Comunitario è finalizzato a "rafforzare la certezza giuridica ed operativa
tanto per le persone fisiche quanto per gli operatori economici". Basta leggerlo, il Regolamento, nella sua dilaniante verbosità, per verificare
come vi sia tutto in quel testo, meno che elementi di certezza, men che mai
di certezza operativa. E basta guardare al pasticcio che si è scatenato
sulle certificazioni, del quale InterLex si è occupata con spirito libero e
costruttivo, per rendersi conto del vento impetuoso del business che si sta
alzando in questi mesi, tanto violento da rischiare di stravolgere regole e
principi, se non fosse alfine intervenuto il Garante a mettere un punto fermo (certo, giuridicamente ed operativamente!) nella nota congiunta con
Accredia (forse non proprio esattamente volontaria, per quest'ultima), grazie alla quale nessuno in questo Paese può più andare a raccontare di
essere in grado di rilasciare una certificazione valida ai fini previsti dal
Regolamento.
Se questo è stato l'antipasto, prima della fatidica data del 25 maggio 2018,
ed anche in vista del decreto legislativo chiamato ad armonizzare il nostro
Codice con il Regolamento, c'è di che esser molto preoccupati.
Preoccupati, sì. Ma anche pronti a segnalare le storture che non mancheranno
di allietare le prossime settimane, certamente incerte (giuridicamente ed
operativamente) per tutti noi.
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Paolo Galdieri
I diritti dell’individuo nel cyber space sono sempre più
spesso messi a dura prova da condotte altrui aventi oggi, quasi tutte,
rilevanza penale. Ne esce un quadro normativo in cui il cittadino trova
tutela penale rispetto alle differenti insidie del web, tutela
oggi più concreta grazie alla tipizzazione di importanti mezzi di
ricerca della prova quali il sequestro, l’ispezione e la perquisizione
informatica.
La predisposizione di un adeguato apparato normativo non significa che
il contrasto alla criminalità informatica non trovi ostacoli, rimanendo
in piedi alcuni problemi da risolvere. Mancano ancora protocolli unitari
in ordine all’acquisizione, conservazione ed analisi degli elementi di
prova digitale, occorre potenziare la cooperazione da parte delle forze
di polizia e dell’autorità giudiziaria, ripensare al ruolo dei
colossi della comunicazione digitale, i quali non possono più chiamarsi
fuori per quello che accade tramite di essi.
Al netto delle questioni giuridiche ancora in piedi, occorre puntare l’attenzione
anche sui doveri dei cittadini digitali e non solo sui loro diritti.
E’ evidente che la norma non può sortire l’efficacia sperata in
assenza di una collaborazione da parte di tutti.
In quest’ottica deve salutarsi con favore la recente legge sul cyber
bullismo, che mira a responsabilizzare le famiglie e l’ambito
scolastico, così come importanti saranno le disposizioni che da qui a
breve saranno varate in ossequio alla direttiva NIS (direttiva UE
2016/1148) e che dovranno prevedere obblighi comuni di sicurezza per gli
operatori di servizi essenziali e per i fornitori di servizi digitali.
Se è giusto pretendere tutela dall’ordinamento giuridico, tutela che
allo stato peraltro c’è, occorre ricordarsi che dietro ogni diritto
vi è in capo a noi un dovere, il cui mancato rispetto ci si rivolge
inevitabilmente contro.
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Manlio Cammarata
"Cittadinanza digitale" significa molte cose. Per Stefano
Rodotà è una «parte della cittadinanza senza aggettivi». E dunque,
come abbiamo visto in queste ore di discussione, in prima battuta il
rapporto tra cittadini e istituzioni attraverso gli strumenti digitali,
in tutti i settori e in particolare in quello della salute.
Ma cittadinanza digitale significa anche libertà e dignità della
persona in rete. Qui vengono al pettine i nodi di quella che chiamiamo,
con una certa imprecisione, "privacy". Che è sempre più
esposta alle mille insidie di "meravigliose innovazioni" come
l'internet delle cose (che ci spiano), le reti sociali (che rivelano
cosa pensiamo e cosa facciamo), i Big Data, che mettono insieme ed
elaborano ogni minima traccia che, volenti o nolenti, lasciamo nella
Rete.
Per essere cittadini digitali è necessario essere in Rete. Per essere
in Rete, per usare la rete (email, social network...), è necessario
cedere i nostri dati personali a chi li sfrutta per guadagnare e per
controllarci. In due parole, questo è il "ricatto digitale"
che contraddistingue il nostro tempo. |
(Foto Anna Cotronei) |
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