Il DDL cosiddetto "Passigli" sui nomi a dominio non ha tagliato il
filo di lana della scadenza della legislatura, nonostante le molte pressioni dei
vari (per dirla con Andrea Monti) leinonsachisonoio.
Al di là di considerazioni sull'opportunità di isolare, tra i tanti casi di
ciber-reato, proprio quello dell'abuso di registrazione di nomi per
introdurre, con l'art. 7 un primo embrione di organismo governativo per il
controllo dello spazio virtuale, vien fatto di chiedersi se la soluzione
individuata per comprimere il reato di cybersquatting non poteva essere evitata
con maggior accortezza previsionale e, soprattutto, perfezionando e correlando
alla realtà della rete la corposa legislazione civile e penale che, in molti
sue leggi e norme, può essere estesa dal mondo reale allo spazio virtuale.
Perché non rafforzare la legge che tutela i marchi, il copyright, perché
non richiamare le norme del codice civile sul diritto all'uso del proprio nome
e non utilizzare le previsioni contenute nella legge 675/96 che protegge i dati
personali e ne prevede il trattamento lecito, corretto, pertinente e non
eccedente, obbligando inoltre il titolare a fornire l'informativa all'interessato?
Basterebbe applicare queste norme per risolvere molte questioni sull'uso
illegittimo dei nomi di persona come nomi a dominio. A questo proposito, proprio
durante la discussione alla Camera, InterLex pubblicava un interessante articolo
di Tiziana Krasna che la Commissione avrebbe dovuto leggere.
Il minacciato decreto rischia di apparire quindi un rimedio posticcio e
traballante soprattutto quando affida ad una istituenda commissione funzioni
che, sinora erano svolte in Italia da un organismo indipendente dai mondi
pubblico e imprenditoriale, in linea con quanto avviene nelle Nazioni governate
democraticamente: ne conseguono le considerazioni che vengono dall'estero e
che vogliono paragonare l'azione governativa italiana a quella attuata dalla
dittatura comunista cinese; e la preoccupazione di azioni imperfette da parte
della istituenda commissione emerge dai commi 3 e 4 dell'art. 7 del DDL, che
prevede una nutrita schiera di commissari coadiuvati da un Collegio consultivo
formato da sino a 15 componenti. Poi, dulcis in fundo, le controversie che la
Commissione potrà provocare vengono rimesse alla giurisdizione della
magistratura ordinaria, con tutti i suoi tempi di risposta. Ma allora non
conveniva definire meglio le problematiche emergenti da abusi in Internet e
rinviarle al corpus iuris esistente? Si sarebbe finiti comunque nelle
maglie della magistratura ordinaria.
Un'ultima considerazione: era proprio necessario un nuovo organismo,
nemmeno tanto strutturato per ruolo e risorse, o si poteva affidare il ruolo
della net-governance italiana all'Autorità per le telecomunicazioni, all'AIPA
per la parte dei domini delle pubbliche amministrazioni, o al Garante per la
protezione dei dati personali per quanto concerne i nomi di persone?