di Tiziana Krasna* -
01.03.01
Uno dei temi principali dell'odierno dibattito sviluppatosi intorno ai
problemi della Rete, è certamente quello dei nomi a dominio, che presenta
aspetti di tale delicatezza da aver sollevato l'attenzione del mondo politico,
prima a livello governativo (con l'istituzione della commissione presieduta
dal sen. Passigli, la quale ha ultimato i suoi lavori presentando un apposito
DDL), poi a livello parlamentare (allo stato delle cose, il Senato ha licenziato
il testo del DDL Passigli, che, in questo scorcio di legislatura, attende
pertanto di essere esaminato dalla Camera).
La rilevanza dei nomi a dominio nasce dal fatto che, come è noto, ciascun
computer connesso alla Rete dispone di un indirizzo IP (Internet Protocol)
costituito da un numero a trentadue bit, al quale viene abbinato un nome (domain
name), essenziale ai fini dell'individuazione e del riconoscimento del
singolo sito.
Il domain name ha struttura complessa, essendo costituito da una parte
"individualizzante" scelta autonomamente dall'utente (Second Level
Domain, o SDL) e da una abbreviazione standard (Top Level Domain, o TLD), che
vale a marcarne la caratterizzazione tipologica (ad esempio, ".com"),
oppure lo stato ove ha avuto luogo la registrazione (ad esempio, ".it"
per Italia).
L'assegnazione del nome a dominio avviene, ad opera della c.d. Registration
Authority italiana, seguendo l'ordine cronologico delle richieste (first
come, first served), quale definito dalle procedure tecniche di
registrazione (c.d. regole di naming). Questo criterio è stato preferito
perché - analogamente a quanto sembra opinare la gran parte della
giurisprudenza statunitense - a domain name tells people where they can
find a particolar web page, much lijke a street address tells people where they
can find a particolar business", cfr. U.S. Court of Appeals, Fourth
Circuit, 22 gennaio 2001, 6 ILR (P&F) 3136 - anche secondo la Naming
Authority i nomi a dominio non hanno altra funzione se non quella di
identificare univocamente gruppi di oggetti (servizi, macchine, caselle postali,
ecc.) presenti sulla rete.
Intorno ai nomi a dominio si è rapidamente creato un fitto contenzioso, in
particolare con riferimento al fenomeno del cybersquatting, vale a dire
dell'accaparramento di nomi a domini relativi a cognomi di persone e/o a nomi
generici, nonché a quello del domain grabbing, consistente nella
registrazione di nomi a dominio per scopi di concorrenza sleale.
Per la risoluzione delle controversie inerenti alla registrazione e all'uso
di nomi a dominio il regolamento di naming contempla una particolare
procedura arbitrale. Presupposto per l'attivazione della procedura è che un
terzo (i.e.: un soggetto che non vanti la titolarità del nome a dominio)
affermi, rispetto a tale segno, che il nome a dominio contestato è identico o
tale da indurre confusione rispetto ad un marchio su cui egli vanta diritti, o
al proprio nome e cognome, e che l'attuale assegnatario non abbia alcun titolo
o diritto in relazione al nome a dominio contestato, nonché, infine, che la
registrazione e l'uso del nome a dominio registrato siano avvenute in mala
fede. A fronte di ciò, per andare esente da responsabilità il resistente
dovrà dimostrare di aver titolo all'uso del dominio allorché sia conosciuto,
personalmente o come ente, con il nome corrispondente al nome a dominio, anche
se non ha registrato il relativo marchio; ovvero che, prima della contestazione,
ne abbia fatto uso o si sia preparato oggettivamente a farne uso per offerta al
pubblico di beni e servizi; oppure, che sta facendo del nome un legittimo uso
non commerciale, ovvero anche commerciale, ma senza l'intento di sviare la
clientela del ricorrente o di violarne il marchio registrato.
L'art. 16. 7 delle regole
di naming prevede poi, tra le circostanze che dimostrano l'avvenuta
registrazione e l'uso del dominio in mala fede, la registrazione con lo scopo
primario di vendere, cedere in uso o in altro modo trasferire il nome a dominio
al ricorrente (che sia titolare dei diritti sul marchio o sul nome) o ad un suo
concorrente, per un corrispettivo che sia superiore ai costi ragionevolmente
sostenuti dal registrante/resistente; la registrazione effettuata allo scopo di
impedire al titolare di identico marchio di registrare in proprio tale nome a
dominio, e per utilizzarlo in attività concorrenziale a quella del ricorrente;
la registrazione effettuata allo scopo primario di danneggiare gli affari di un
concorrente o di usurpare nome e cognome del ricorrente; infine, l'utilizzo
del nome a dominio per attrarre, a scopo di profitto, utenti Internet, creando
motivi di confusione con il marchio del ricorrente.
A fronte di tali indici interpretativi, la giurisprudenza italiana, più
volte sollecitata a pronunciarsi, specie in sede cautelare, ha ritenuto
maggiormente proficuo ispirarsi, in modo più o meno coerente, alla normativa
recata dalla legge marchi, estesa, sic et simpliciter, alla materia dei
nomi a dominio. I risultati non sono stati immuni da incertezze applicative;
inoltre, i giudici hanno proposto motivazioni contraddittorie, talvolta persino
nell'ambito dello stesso provvedimento, fornendo nel complesso una sensazione
di forte imprevedibilità (oltre che opinabilità) dei risultati ottenibili in
sede giudiziale, con la dominante comune dell'ossequio, motivato in misura non
sempre soddisfacente, alle ragioni dei titolari del marchio maggiormente
rinomato (si vedano, in particolare, le ordinanze dei Tribunali di Milano,
Roma, Viterbo,
risalenti ai primi mesi del 2000).
Ciò in gran parte deriva, a mio avviso, dall'oggettiva impossibilità di
adottare una prospettiva rigorosamente industrialista nella materia dei nomi a
dominio, i quali, se non sono certo riducibili a meri indirizzi di
reperibilità, difficilmente possono condividere la struttura (e, vorremmo dire,
almeno in parte anche la funzione) dei segni distintivi d'impresa, a meno di
non adottare un'inaccettabile ottica riduzionista del web, quasi che si tratti
di uno spazio deputato in via esclusiva all'incontro della domanda e dell'offerta
: in altri termini, di una proiezione "virtuale" del mercato, quale
entità organizzativa e ordinatrice tuttora caratterizzata, in prevalenza, dall'elemento
della "fisicità".
In realtà, relativamente alla questione che ne occupa, al di là delle
apparenze il ricorso alla normativa sui marchi non rappresenta, tra le opzioni
allo stato attuale delle cose complessivamente offerte dal nostro ordinamento,
né la soluzione più semplice, né quella più lineare (poiché presuppone una
cosa che non è, e più precisamente la pacifica identificabilità, in primo
luogo dal punto di vista concettuale, tra marchio e domain name). A ben
vedere, infatti, ai fini di una rapida risoluzione del contenzioso relativo ai
nomi a dominio, almeno in un certo numero di casi è possibile utilizzare
un paradigma diverso, più inconsueto per la giurisprudenza ma non per questo
meno intrigante, e con tutta probabilità maggiormente flessibile: la
ricostruzione in termini di trattamento dei dati personali.
Ai sensi dell'art. 1 della legge 675/96,
infatti, è noto che deve considerarsi dato personale qualunque informazione
relativa a persona fisica, giuridica, ente o associazione, identificate o
identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra
informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale, e quindi - a
certe condizioni - anche il nome a dominio. La nozione di trattamento,
inoltre, ben può includere la (stessa operazione di) registrazione del nome a
dominio, oltre che l'utilizzo (successivo) di questo.
E' parimenti noto che, in linea di principio, la liceità del trattamento
dei dati personali è subordinata dalla L. 675/96 all'esistenza del consenso
(libero, specifico e documentato per iscritto) dell'interessato, al previo
adempimento dell'obbligo di informativa (teso a rendere "informato"
il consenso anzidetto), nonché al rispetto dei canoni (liceità, correttezza,
pertinenza, non eccedenza, etc.) indicati nell'art.
9 della medesima legge. Per quanto qui rileva, interessante è notare che,
anche nei casi in cui non è necessario il consenso al trattamento (perché, ad
esempio, i dati provengono da pubblici registri, elenchi, atti o documenti
accessibili a chiunque), l'obbligo di informativa e quello di rispettare i
suddetti criteri (liceità, correttezza, pertinenza, non eccedenza, etc.)
restano comunque fermi, a carico del soggetto che intende utilizzare le
informazioni personali delle quali sia entrato in possesso in modo corretto.
Che l'acquisizione (la "raccolta", secondo il lessico della L.
675/96) dei dati personali sia avvenuta lecitamente è, infatti, circostanza che
di per sé non comporta anche l'automatica liceità di qualsivoglia
trattamento successivo (come tale, distinto rispetto alla "raccolta"
medesima). La liceità dei trattamenti successivi alla raccolta, in particolare,
è in funzione degli scopi che si intendono con essi perseguire e che devono
risultare identificati (o almeno identificabili, se in rapporto di correlazione
con altri trattamenti : v. art. 7,
comma 1) già all'atto della raccolta"dei dati, tanto da dover trovare
riscontro (v. il riferimento alle finalità) nella notificazione di cui al già
citato art. 7, quando obbligatoria.
Nella parte (artt. 9 e 13) in cui la L.
675/96 stabilisce che i dati oggetto di trattamento devono essere trattati in
modo lecito e secondo correttezza, e l'interessato conserva il diritto di
reagire - persino ove manchi un illecito in senso proprio: v. art. 13,
comma 1, lett. d), il punto di riferimento assunto dal legislatore sono infatti
proprio le finalità, quali identificate già all'atto della raccolta, che si
intendono perseguire attraverso la raccolta medesima e le forme di trattamento
diverse e successive rispetto a questa.
E' proprio su questa identificazione che occorre, allora, porre l'accento.
A ben vedere, l'identificazione degli scopi cui tende il trattamento è
funzionale alla realizzazione di due essenziali adempimenti :
- l'indicazione di siffatte "finalità" nella notificazione di cui
all'art. 7 (quando obbligatoria), e in relazione a ciò è utile rammentare
che essa deve aver luogo prima che il trattamento venga iniziato (comma 1) ;
- la specificazione degli scopi, in modo che essi risultino "determinati,
espliciti e legittimi", all'atto della registrazione dei dati - v.
artt. 7, comma 5-bis, lett. c), 9, comma 1, lett. b), 13, comma 1, lett. c), n.
1 - vale a dire dell'operazione del trattamento che per sua natura segue
invariabilmente, in senso sia logico che cronologico, la raccolta, e altrettanto
invariabilmente precede qualsivoglia forma di trattamento diversa e successiva
rispetto a questa (questa "registrazione" non ha ovviamente nulla a
che vedere con la "registrazione" del nome a dominio presso la RA,
esaurendosi in un'operazione che rimane interna alla sfera di disponibilità
giuridica del titolare del trattamento).
Sicché, non soltanto è chiaro che - accanto alla identificazione - è
distinguibile un momento, importante, di "ufficializzazione"
esternativa, per così dire, degli scopi cui tende il trattamento, ma è
parimenti evidente che esso comporterà una specificazione degli stessi di grado
comunque pari a quello presupposto dall'art. 9, comma 1, lett. b), quando
puntualizza che in sede di registrazione dei dati personali occorre individuare
gli scopi "determinati, espliciti e legittimi" che si intendono
perseguire per il tramite del trattamento.
In rapporto al problema dei nomi a dominio, proprio la identificazione e
ufficializzazione delle finalità del trattamento - in forme, quali quelle
secondo le quali si attuano la notificazione e la registrazione di cui dall'art.
9, comma 1, lett. b), che comportano una sorta di preventiva
cristallizzazione degli scopi in parola - possono consentire una piena e univoca
valutazione del comportamento (successivo) del soggetto che (presso la RA)
avesse registrato, ad esempio, un domain name corrispondente al nome e
cognome altrui.
Dando per presupposto che l'accaparramento di nomi a dominio allo scopo di
trarne profitto (ad esempio, cedendolo a titolo oneroso a chi abbia diritto e
interesse ad usarlo), o di recare danno a terzi, sia da considerare finalità
non legittima, delle due l'una : o in sede di registrazione di cui all'art.
9, comma 1, lett. b), siffatto scopo viene effettivamente indicato (e allora il
trattamento sarà illecito e la registrazione costituirà evidentemente prova
diretta di ciò), oppure la finalità legittima eventualmente indicata, da un
punto di vista formale, all'atto della registrazione dei dati, non viene in
concreto perseguito. E allora, ferma restando l'illiceità del trattamento
preordinato al cybersquatting e al domain grabbing, la
registrazione costituirà prova soltanto indiretta di ciò, in quanto termine
univoco di raffronto comportamentale.
Dunque, la finalità indicata nella notificazione (se obbligatoria) del
trattamento, nonché (comunque) in sede di registrazione, ai sensi dell'art.
9, comma 1, lett. b), si atteggia per sua natura a fondamentale cartina di
tornasole per la valutazione della condotta (successiva) del soggetto che abbia
registrato presso la RA un nome a dominio coincidente - per rimanere all'esempio
fatto - con l'altrui nome e cognome.
Si consideri, inoltre, che se un simile dato personale non è raccolto presso
l'interessato (ad esempio, è tratto da un documento conoscibile da chiunque),
il soggetto che lo raccoglie è per legge obbligato (art.
10, comma 3) a dare l'informativa, e quindi a rendere nota all'interessato
medesimo non soltanto l'avvenuta raccolta delle informazioni, ma anche la
finalità perseguita "all'atto della registrazione dei dati"
(oppure, laddove di essi sia prevista la "comunicazione", non oltre la
prima comunicazione, che ben può coincidere con quella effettuata nei confronti
della RA in sede di registrazione del domain name). Sicchè, la triade
"notificazione/registrazione/informativa (ex post)" vale per un
verso a ufficializzare, rendendole immodificabili, le finalità che si intendono
perseguire per effetto del trattamento, e, per altro verso, a rendere edotto l'interessato
di quanto sta accadendo, onde porlo in condizione di reagire utilizzando gli
strumenti allo scopo adoperabili (nell'ambito dei quali riveste certamente un
ruolo di primo piano la procedura di ricorso di cui all'art.
29, che in tempi record - 30 giorni - conduce ad una pronuncia motivata
del Garante per la protezione dei dati personali).
Ove rispettata, pertanto, questa sequenza procedimentale risulta in astratto
idonea a consentire all'interessato di contrastare l'abuso persino ove
questo fosse ancora in fieri, facendo valere i diritti previsti dall'art.
13 tra il momento della registrazione dei dati personali e quello, evidentemente
successivo (ma pur sempre anteriore rispetto alla fase - ulteriore ed eventuale
- del "ricatto" o della realizzazione di un danno), nel quale ha luogo
il trattamento che la stessa operazione di registrazione del nome a dominio
presso la RA necessariamente implica.
Le sintetiche considerazioni che precedono evidenziano, allora, che il
fenomeno del cybersquatting può interpretarsi anche come un
trattamento di dati personali altrui, rispetto al quale l'interessato dispone
del potere di opporsi al trattamento per motivi legittimi (quali, ad esempio, la
volontà di registrare egli stesso il proprio nome e cognome), nonché, in
particolare quando sia evidente l'intento di accaparramento, della facoltà di
chiedere il blocco del trattamento, in quanto illecito, oppure, ancora, di
chiedere la cancellazione dei dati in questione.
Analogamente è a dirsi nel caso del domain grabbing, laddove
evidentemente dovrà farsi riferimento alla effettiva identificabilità del
titolare tramite il nome a dominio registrato, con particolare attenzione agli
indici atti a far ritenere che la registrazione e l'uso sono avvenute in mala
fede (specifica utilità avrà la considerazione che il nome a dominio è stato
intenzionalmente utilizzato per attrarre utenti Internet, allo scopo di
ricavarne profitto, creando confusione con il marchio del ricorrente).
In questa prospettiva, naturalmente, la questione principale da risolvere
diventa non più quella dell'allocazione dei diritti sul marchio-nome a
dominio, ma la possibilità di considerare questo, nei singoli casi, come un
autentico dato personale, posto che non tutti i domain name sono per la
loro natura tali (v. art. 1, comma 2, lett. c). Il problema finisce, all'evidenza,
per toccare in via diretta anche la sfera di competenza della RA, che non sembra
potersi esimere da una simile valutazione, e in particolare dalla verifica, all'atto
del ricevimento di un'istanza di registrazione di un domain name
coincidente con nome e cognome diversi da quelli del richiedente, dell'avvenuto
adempimento dell'obbligo di informativa nei confronti dell'interessato, ciò
che avrà l'effetto di instaurare - in via naturale, e soprattutto ex
ante - una situazione di contraddittorio tra le parti utilmente atta a
condurre ad una legittima registrazione, con consequenziale sgravio della RA da
improbabili oneri di autonoma ricerca della verità, nonché da forme non
giustificate di responsabilità che talvolta si vorrebbe addossarle.