di Andrea Monti - 02.11.2000
L'iniziativa che ha segnalato lo stato di
soggezione della pubblica amministrazione italiana ai prodotti Microsoft ha
suscitato un giusto e meritato interesse. Che però si è focalizzato
principalmente su due aspetti di importanza non centralissima: lo
"scontro" fra due tecnologie (Linux da un lato, Windows dall'altro)
e le pur indubitabili economie realizzabili impiegando software libero.
In una prospettiva di più ampio respiro, tuttavia, questi aspetti perdono di
nitidezza e da soli non giustificano con la forza sufficiente il chiedere allo
Stato di non utilizzare più software del quale non si ha la disponibilità dei
sorgenti e che non sia liberamente modificabile e riproducibile.
Ammettiamo infatti, ovviamente per assurdo, che da domani alla pubblica
amministrazione siano regalati i software che - diversamente - si dovrebbero
pagare a caro prezzo. Sarebbe risolto in un colpo solo il problema dei costi e
della compatibilità (ma al prezzo di costringere comunque i cittadini a
spendere somme rilevanti per acquistare gli unici programmi che consentirebbero
di interagire con lo Stato) Cambierebbe qualcosa?
No, saremmo esattamente allo stesso punto: lo Stato si troverebbe ancora
nella stessa condizione dalla quale lo si voleva emancipare. Perché
continuerebbe ad utilizzare tecnologie sulle quali non ha alcun controllo e che
da un momento all'altro - senza alcun preavviso - potrebbero "essere
usate contro di lui" (e contro i cittadini, in definitiva). Sarebbe come
attribuire ad un soggetto privato - per di più straniero - la titolarità
della lingua nazionale, lasciando a costui il potere di decidere quali parole
usare, come, con quale significato e quando. Nonché il potere di crearne di
nuove e di porne altre in desuetudine.
In concreto, tutto questo si traduce in maggiori costi, inefficienze e scarsa
sicurezza..
Significa impedire la creazione e la redistribuzione di posti di lavoro e dunque
di ricchezza. Perché i costi notevoli delle licenze potrebbero servire a
retribuire persone o aziende che sviluppano, installano e configurano programmi,
invece di essere impiegati per comprare "scatole vuote".
Significa sprecare tempo, soldi ed efficienza in formazione continua del
personale pubblico, in riconversione di dati e programmi, nell'acquisto di
hardware sempre più costosi.
Significa lasciare il controllo di informazioni critiche e "sensibili"
(sanità, difesa, interni, economia) nelle mani dell'unico soggetto che ha
accesso al cuore delle applicazioni che le gestiscono. Che dunque ha la
possibilità di accedere impunemente ai punti nevralgici delle istituzioni..
Significa rendere più vulnerabili le infrastrutture di comunicazione del paese.
Come ha dimostrato la recente incursione di criminali brasiliani nei web di
ministeri e autorità.
Non è possibile che lo Stato rinunci in modo così sistematico ad un ruolo
attivo nella profonda riforma che lo vede contemporaneamente artefice e oggetto
e alle responsabilità che questo implica. In definitiva, quindi, si sta
discutendo non (solo) di soldi ma di libertà e della necessità che lo Stato
eserciti la sua funzione di garante dell'interesse pubblico.
Di questi temi si parla in Italia fin dal 1998 - e si continua a parlare -
fondamentalmente per merito di ALCEI che fu la prima ad inquadrare la
problematica Open Source in un comunicato
e poi in svariate occasioni. Ad esempio con l'intervento
al Forum della Società per l'informazione e al convegno internazionale Computer
Freedom and Privacy 2000.
Ma a fronte dell'interesse suscitato dalle varie iniziative c'è sempre
stato uno scarso riscontro concreto.
Il problema serio che si è evidenziato nel corso di questi due anni è la poca
attitudine delle istituzioni ad ascoltare quelle parti della società civile che
possiedono adeguata esperienza e preparazione e a raccogliere i loro contributi.
Al contrario di quanto accade per esempio in Francia (dove è stata proposta una
legge per l'eliminazione di software non liberi dalla PA) o in Germania (con
il finanziamento pubblico del progetto GPG)
dove, grazie alla cooperazione fra Governo e società civile, si stanno
registrando significativi passi avanti..
E' dunque importante, per l'Italia, non perdere questa grande opportunità
di rinnovamento. Avvalendosi anche dell'aiuto di chi - come ALCEI - mette
a disposizione il proprio patrimonio di esperienze senza essere condizionato da
logiche di profitto.