Prime impressioni sul rapporto della
"Commissione Meo"
di Andrea Monti - 18.06.03
La pubblicazione dei risultati del lavoro della Commissione Meo è un
evento sicuramente centrale nello sviluppo di una cultura istituzionale dell'open
source. Finalmente, a quasi quattro anni dal primo invito rivolto alle
Istituzioni ad affrontare il tema (vedi E' compito delle istituzioni pubbliche
liberarci dalla schiavitù elettronica, presentato al Forum per la società
dell'informazione voluto dalla Presidenza del Consiglio nel
"lontano" 1999) un documento ufficiale traccia una linea guida e
propone strategie a un interlocutore al quale, ora più che mai, si adatta l'antica
sfida: hic Rhodus, hic saltus.
Va tuttavia rilevato che, a fronte dell'innegabile sobrietà ed
equilibrio che contraddistinguono il rapporto
della Commissione Meo, non se ne registra una altrettanto nitida
definizione della prospettiva culturale e politica. Anzi, come si vedrà,
alcuni temi sono stati trattati in modo molto superficiale e altri addirittura
esclusi dall'analisi. Mentre i dati sui quali sono state basate
considerazioni e scelte sembrano avere una attendibilità abbastanza limitata.
Cominciamo da questo ultimo punto. Il Rapporto Meo utilizza - relativamente
all'Italia - dati Assinform (cioè di un soggetto non terzo rispetto al
campo di indagine) e AIPA (il cui raggio d'azione è limitato alle
amministrazioni centrali). Ne consegue che, in realtà, il rapporto si basa su
dati, nella migliore delle ipotesi, quantomeno incompleti (con le conseguenze
descritte per esempio nell'articolo Quale
"fiducia" per la sicurezza?).
Stando così le cose potrebbe essere ragionevole chiedersi quanto siano
corrette delle conclusioni basate su dati incerti. Ma anche a voler superare
questo argomento, rimangono perplessità di ordine generale, come l'eccessivo
sbilanciamento degli estensori verso una prospettiva tecno-economica.
Già la sezione "proposte" dell'executive summary si apre
con un chiaro invito a privilegiare l'aspetto del value for money e
buona parte del testo si concentra su questioni tecniche (come la tediosa
elencazione delle applicazioni open source attualmente disponibili, che
avrebbe trovato migliore collocazione in un'appendice o in un allegato, e
invece occupa intere pagine che potevano essere riservate a ulteriori
approfondimenti.
Gli effetti di questa impostazione tecnicistica emergono appieno nella
sezione della ricerca, che si occupa della scuola. Argomento di cui parlo con
qualche cognizione, insegnando "Teoria dei sistemi informatici applicati
alla didattica del diritto" nella Scuola superiore per l'insegnamento
secondario delle università di Chieti e Teramo. L'esperienza fatta con i
futuri docenti di diritto ed economia ha dimostrato chiaramente che la
"questione" software libero nella scuola non riguarda soltanto gli
insegnamenti di informatica o gli istituti tecnici. Così come ha poco o nulla
a che fare con le economie di scala e il risparmio (aspetti pur importanti in
una scuola povera come quella italiana).
Le future generazioni di docenti (e, sospetto, anche quelle attuali) con le
quali ho avuto contatti diretti, vedono l'informatica, pardon, il computer,
come uno specchietto per le allodole e un mezzo per automatizzare esami e
valutazioni. Come una specie di incrocio fra un videogioco e un quiz
televisivo finalizzato a "captare" l'attenzione dei discenti. E
non stupisce, quindi, che alla prima lezione del mio corso praticamente tutti
i partecipanti si affannano a spiegare che con gli ipertesti, le banche dati e
"i powerpoint" i ragazzi si distrarrebbero di meno e imparerebbero
meglio. Quasi nessuno, alla fine del ciclo didattico, mantiene questa
convinzione.
Perché, come ricorda Giancarlo Livraghi in Libertà, trasparenza e compatibilità:
non è solo un problema di software, "Il tema che va genericamente
sotto il nome di "opensource" o "software libero" non
riguarda solo i sistemi operativi o i programmi software, ma più estesamente
tutti i sistemi di gestione dell'informazione e della comunicazione. Non si
tratta solo del "codice sorgente" ma anche più in generale di
trasparenza, compatibilità e libertà dell'informazione, del dialogo, della
comunicazione in tutte le sue forme".
Dunque si tratta di costruire - grazie all'open source - un'ecologia,
meglio, una fisiologia della comunicazione e della circolazione delle idee che
consentirebbe di reificare quelle idee di pluralismo e parità di condizioni
di accesso ora confinate nel libro dei sogni. E destinate a rimanerci non si
sa per quanto grazie a una visione "proprietaria" della didattica e
della formazione.
Ma secondo la Commissione Meo l'apporto del software libero nella scuola è
sostanzialmente circoscritto al settore dell'informatica e all'ottimizzazione
del budget.
Un altro tema, tanto importante quanto ignorato, è quello del rapporto fra
open source e garanzia dei diritti individuali, con particolare riferimento
alla difesa giudiziaria. Non è - forse - argomento noto ai più, ma oggi le
indagini penali nelle quali è coinvolto un sistema informatico vengono
condotte praticamente solo tramite sistemi operativi e applicazioni
proprietarie. In altri termini, ci troviamo di fronte a dibattimenti penali
nei quali il giudice deve accettare come "prova" dati e informazioni
sulla cui provenienza, generazione, analisi e valutazione non è possibile
effettuare alcun riscontro (per approfondire vedi Attendibilità
dei sistemi di computer forensic). Questo potrebbe sembrare un discorso
troppo specialistico per essere inserito in una indagine come quella della
Commissione Meo. Basta dare un'occhiata ai lavori del gruppo di ricercatori
del progetto CTOSE (Cyber Tools
for Online Search of Evidence), finanziato dalla Commissione Europea, per
capire che non è così. Oppure, per raggiungere la stessa consapevolezza,
basta difendere una persona la cui colpevolezza sarebbe dimostrata solamente
(o essenzialmente) da relazioni automatizzate prodotte da software
proprietari.
Particolarmente debole e generico, poi, è il discorso relativo ai formati.
La cui libertà e disponibilità costituisce invece proprio la chiave di volta
per realizzare una democrazia elettronica e per stimolare il mercato. Per
convincersene, basta ricordare che il protocollo che manda avanti l'internet,
il TCP/IP è stato sviluppato per conto del Governo statunitense e da questo
"liberato" e poi imposto alle aziende. E per capire quali sono i
rischi della diffusione nel settore pubblico dei formati proprietari sarebbe
bastato farsi un giro nei padiglioni di Bionova
2003. La fiera italiana delle biotecnologie recentemente svoltasi a Padova,
dove sono stati presentati mastodontici progetti di centralizzazione di
cartelle cliniche, dati sanitari e quant'altro, senza che nessuno si fosse
preso la briga di pensare alla "sopravvivenza" dell'accessibilità
alle informazioni. Destinate a diventare incomprensibili con la dipartita di
questo o quel fornitore di tecnologia.
Tirando le somme di questi ragionamenti in ordine sparso, alla fine, è
molto forte la tentazione di considerare il Rapporto Meo un'occasione
perduta.
Ma forse è una valutazione prematura che, spero, potrà essere dimostrata non
rispondente al vero. |