Il rapporto personale nacque dopo, nel gennaio del 1995,
quando lui volle replicare a un mio
articolo, molto critico, sul disegno di legge “1901-bis”. La sua "creatura"
iniziava allora l’iter che si sarebbe concluso due anni dopo con la legge
657/96. Mi accusò di “terrorismo interpretativo”. Ne nacque
un’intervista-duello, che non cambiò la mia opinione, ma mi fece capire la profonda
preparazione e la statura etica del magistrato.
Perché Giovanni Buttarelli dominava la materia, era
impossibile tenergli testa quando citava a memoria la normativa in vigore o in
discussione in tutto il mondo. Ed era giustamente orgoglioso per quanto il
quadro normativo europeo, del quale è da tutti considerato il “padre”,
fosse studiato e preso come modello in tutto il mondo. La convinzione con la
quale combatteva le sue battaglie era frutto di un’onestà intellettuale che
deve riconoscergli anche chi non condivideva le sue idee o vedeva i propri
interessi colpiti dal sistema di tutela della persona che lui aveva disegnato e
che difendeva, instancabile.
Negli anni in cui fu segretario generale del Garante italiano ci incontrammo
molte volte, sempre d’accordo sui principi e più o meno in disaccordo con la
loro traduzione in precetti giuridici. Il confronto era stimolante, la sua
ironia sottile disarmava
anche l’oppositore più accanito.
Ma chi era il “nemico” contro il quale Gianni
combatteva? Per capirlo basta ricordare quello
che accadde il giorno stesso della sua scomparsa, come fu riportato da diversi
giornali: se qualcuno cercava su Google “buttarelli causa morte” o
“buttarelli malattia” otteneva la risposta in una frazione di secondo.
Lui e i suoi familiari avevano steso una cortina di riserbo sul male
che lo aveva colpito. Come tutti sappiamo, le informazioni sullo stato di salute di una persona
hanno una tutela molto forte nella normativa sul trattamento dei dati
personali. La verità era conosciuta da poche persone, che mai
avrebbero diffuso l’informazione ai quattro venti. Certo nessuno l’ha
“condivisa” su una rete sociale o divulgata in altro modo. Ma Google violò
il silenzio. Google “sapeva”. Perché Google sa tutto di noi e lo rivela senza
riguardi per nessuno.
Proprio Giovanni Buttarelli, che aveva dedicato la sua vita
a difendere il riserbo, la vita privatissima dei malati, è stato vittima di una
violazione delle regole che aveva contribuito a scrivere. Un paradossale insulto
alla memoria, che non suscita solo indignazione, ma anche pesanti interrogativi sull’applicazione delle regole per la
tutela dei dati personali.
Come è stato possibile, ci si chiede, che Google
conoscesse – e rendesse pubblica – quell'informazione riservatissima? La
risposta, con ogni probabilità, è in un algoritmo. Anzi, nell’Algoritmo per
eccellenza, quello che raccoglie i dati da ogni fonte possibile, li elabora e li
mette a disposizione di chiunque. È il nucleo centrale della potenza di Google.
L’Algoritmo (o quell’insieme di algoritmi chiamati con molta imprecisione
“intelligenza artificiale”) potrebbe avere raccolto l’informazione dalla
scansione automatica dei contenuti dei messaggi di Gmail, il servizio di posta elettronica che Google fornisce – gratis,
all’apparenza – a milioni, o miliardi, di persone in tutto il mondo. Persone
che, in modo più o meno consapevole, hanno dato il consenso al
“trattamento” anche dei dati contenuti nella loro corrispondenza privata, quando
hanno sottoscritto l’abbonamento a Gmail.
Il fatto è che quando Google “legge” le email dei
suoi abbonati, cattura anche le informazioni dei loro corrispondenti, anche di
quelli che non sono suoi abbonati e quindi non hanno espresso alcun consenso al
trattamento dei propri dati (questo dovrebbe far nascere forti dubbi sulla
legittimità di un tale trattamento).
Oppure l’Algoritmo potrebbe avere ricavato l’informazione da qualche
documento, forse una cartella clinica, una delle tante che qualche medico poco
attento, o qualche struttura sanitaria, continuano a depositare sui servizi in
cloud di Google, in totale dispregio di
qualsiasi precauzione di sicurezza e riservatezza. Non sapremo mai dove
“BigG” ha raccolto l’informazione.
Il problema del quale volevo discutere con Gianni è questo: il GDPR e le sterminate
normative nazionali prescrivono nei
minimi dettagli che cosa si deve o si può fare e che cosa non si può fare nei trattamenti di dati personali. I Garanti (non solo quello italiano)
intervengono continuamente anche su questioni minime, come l’orientamento di
una telecamera di sorveglianza che, per caso, inquadra anche la porta di un
bagno, violando la riservatezza dei lavoratori che vanno a fare pipì.
Ma che cosa
dovrebbero dire i Garanti degli Stati membri della UE sulla profilazione,
sulla raccolta delle informazioni anche più intime relative a una
persona, compiuta sistematicamente e su vasta scala dalle migliaia e migliaia di
app che milioni, anzi, miliardi di individui trovano già installate, o
installano, sui dispositivi che usano ventiquattr’ore su ventiquattro?
Certo, i Garanti ne parlano, dichiarano, deplorano,
auspicano…Ma che cosa fanno in concreto di fronte all’acquisizione
sistematica delle rubriche telefoniche, della geolocalizzazione, della lettura
di email e SMS, dell’uso della telecamera e del microfono, della registrazione
dei dati di navigazione e delle scelte di acquisto e persino dei dati relativi
allo stato di salute che vengono sistematicamente raccolti ed elaborati – i
famosi Big Data – dai dispositivi e dalle app che ciascuno di noi usa tutti i
giorni e molte volte al giorno?
Si risponde: nell’installazione dell’app l’utente
esprime il suo “consenso informato” al trattamento dei dati. Quale consenso,
se le informative sono sostanzialmente illeggibili (quelle di Google e di
Facebook equivalgono a trenta-quaranta pagine di un libro) e stendono una
cortina fumogena sulla vera natura dei trattamenti?
La lettura di questi testi scoraggia chiunque, Anche, si
direbbe, le istituzioni e la pubblica amministrazione, visto che molti politici,
molti pubblici amministratori anche di altissimo livello, usano Gmail per la loro
corrispondenza.
Questa “distrazione” è tale che sembra che nessuno si sia accorto che nelle
informazioni rese da Google e da molti altri Over The Top mancano proprio quelle sulla
profilazione, come sono prescritte in dettaglio da diversi articoli del GDPR.
Il rispetto formale delle norme nasconde troppo spesso il
loro sostanziale aggiramento. Quando su un sito leggiamo la richiesta del
consenso per l’invio dei cookie, e all’apparenza potremmo negarlo, i cookie
sono già sul nostro dispositivo. Se neghiamo il consenso, l’informazione
viene depositata nel nostro sistema con un apposito cookie. Ma se usiamo
l’elementare precauzione di attivare la cancellazione dei cookie alla chiusura
del programma di navigazione, anche questo cookie va perduto e siamo di nuovo
esposti alla trafila. È una specie di “comma
22” della protezione delle informazioni personali: «Chi vuole proteggere
i suoi dati cancella i cookie, chi cancella i cookie non protegge i suoi dati».
Sembra che non ci sia alcuna possibilità di difendersi.
Eppure l’Europa ci aveva provato, con una proposta di regolamento per
completare il GDPR con le disposizioni in materia di servizi di comunicazioni,
il cosiddetto “regolamento e-privacy”.
Prevedeva, fra l’altro, il diritto dell’interessato, in linea generale, di non voler essere tracciato e
profilato
Una bozza del regolamento era stato pubblicata nel gennaio del 2017;
il testo finale avrebbe dovuto essere applicabile dal 25 maggio 2018, insieme al
GDPR. Sono passati quasi tre anni dalla bozza, ma il regolamento è scomparso.
Bloccato dalle lobby dei padroni dei Big Data, preoccupati da una prevedibile
contrazione del lucroso mercato dei dati personali.
Così arriviamo al punto centrale della questione,
riassunto nel titolo di questo incontro: quali garanzie abbiamo contro i
“poteri forti”? Poteri forti, va ricordato, che nel mondo globalizzato di
oggi si chiamano Google, Facebook, Amazon, Apple e via elencando (senza
dimenticare la cinese Alibaba, che sta sbarcando in Europa anche nell'e-commerce
al dettaglio).
Ma proprio da uno di questi “poteri forti”, Amazon, pochissimi anni fa,
veniva un consulente del nostro Governo, al massimo livello. Nessuna riserva
sulle qualità della persona, ma è una questione di principio: come si può
pensare di mettere il lupo a organizzare la vita dei tre porcellini?
La domanda è di stretta attualità, dal momento che le
Autorità per i dati personali e per le comunicazioni sono in regime di proroga
della proroga. Quali garanzie abbiamo che non venga nominato un professionista che in passato ha curato
gli interessi di qualcuna delle Big Company, che non abbia un rapporto di
fiducia con i “poteri forti” del nostro tempo?
E allora la mia risposta alla domanda iniziale “quali
garanzie…?” è “non lo so”.
Solo un punto, per me, è chiaro: siamo tutti vittime del
“ricatto digitale”: informazioni
e servizi solo in cambio di dati personali. In ultima analisi, in cambio
dell’esercizio effettivo della “cittadinanza digitale” che Stefano Rodotà
definiva come “cittadinanza tout court”.
La domanda con la
quale conclusi l’ultima intervista a Giovanni Buttarelli, nel dicembre del
2017, era questa:
«Siamo di fronte a una sorta di “ricatto digitale”
quello che subiamo quando siamo costretti a cedere i nostri dati per ottenere un
servizio, sia un account di Facebook o altro?».
La sua risposta: «Eliminiamo le parole “una sorta
di” e la risposta è già: “sì”. Noi abbiamo lanciato il dibattito
sull’etica non per parlarci addosso su chissà quale morale da applicare alle
nuove tecnologie, ma perché c’è un problema sostanziale, che le leggi sulla
protezione dei dati affrontano con una certa importanza (e adesso il Regolamento
avrà un ruolo). Ma non si possono risolvere tutti i problemi se non c’è un
discorso che porta ad affrontare quello che è detto nel “considerando”
introduttivo del Regolamento: le tecnologie devono essere al servizio
dell’uomo, non il contrario».
Era questo l’impegno di Giovanni Buttarelli. Un impegno sul filo dell’etica prima
che su quello delle norme. Ma era, ed è ancora, una lotta impari. Troppo grande
è diventata la potenza delle grandi techno-company,
troppo agguerrite le loro lobby.
L’esempio più evidente è il bòocco del regolamento
e-Privacy, al quale ho già accennato poco fa, fermo, impantanato fra
"pareri" e proposte di cambiamenti.
La speranza è che il nuovo Parlamento e la nuova
Commissione vogliano e sappiamo continuare il lavoro di Buttarelli. Sembra che a
Bruxelles che ci sia, finalmente, la consapevolezza delle dimensioni del
problema. Margarethe Verstager, commissario alla concorrenza e ora anche al
digitale, ha riconosciuto che non basta il GDPR per contrastare l’invadenza
delle grandi compagnie tecnologiche. Forse potrà realizzare l’auspicio di
Buttarelli, che in una delle sue ultime interviste avanzava l’ipotesi di
un’autorità a livello europeo, con la forza necessaria per combattere gli abusi dei
padroni dei Big Data.
Non resta che aspettare, conservando il ricordo di un uomo
la cui impronta resterà non solo nella memoria di chi lo ha conosciuto e
stimato, ma nella storia della costruzione dell’Europa e dell’affermazione
dei suoi principi di libertà.
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